di Alessandro Campi
Ci vorranno forse anni per valutare le effettive conseguenze del terremoto politico-culturale che sta scuotendo la sinistra italiana da quando Renzi – dopo aver sconfitto il vecchio gruppo dirigente del Pd – ne ha assunto la guida.
C’è chi ritiene, a dispetto dell’apparenza, che si tratti di un cambiamento tanto radicale quanto effimero, dunque reversibile, provocato più che altro dal senso di frustrazione dell’elettorato progressista. Che si è affidato a Renzi non per le idee professate da quest’ultimo, vaghe e spesso eccentriche, ma perché ha dimostrato di essere un leader capace di sbaragliare qualunque avversario. Quando l’ebbrezza da vittoria sarà passata, si scoprirà che Renzi e il suo seguito sostengono una visione della politica che somiglia sin troppo a quella berlusconiana: tutta centrata sulla comunicazione, sulle promesse, sul mito pericoloso dell’uomo solo al comando, sulla falsificazione propagandistica della realtà. A quel punto, spezzato l’incantesimo o risolto l’equivoco, la sinistra ritroverà la sua anima antica e più autentica, e il renzismo non sarà che un brutto ricordo.
Ma quest’ultima, più che una previsione, sembra una speranza venata di nostalgia. Ovvero un modo per chiudere gli occhi dinnanzi ad un cambio di scena che la storia aveva ormai reso necessario e che in Renzi, a ben vedere, ha trovato soltanto colui che si è preso la briga di interpretarlo, senza peraltro avere un copione scritto da seguire. Vent’anni fa, con la svolta della Bolognina, Achille Occhetto – secondo le sue parole – aveva cercato una via d’uscita da sinistra alla crisi del comunismo, ma il gruppo dirigente del suo partito preferì dare la scalata al potere, invece di impegnarsi in una rilettura critica della propria storia (e dei propri errori) e in una ridefinizione radicale delle proprie coordinate ideologiche. Come collante (e propulsore) di quel mondo bastò l’antiberlusconismo. Renzi, si può dire, sta saldando il conto che la sinistra, per salvare a tutti i costi il mito della propria unità interna e della propria superiorità morale, non ha voluto pagare all’epoca. E il debito inevaso lo ha messo tutto in carico alla generazione dei padri e dei fratelli maggiori, ormai convinti che nessuno a questo punto l’avrebbe più esigito.
L’impressione è che Renzi stia interpretando una struttura della società (e una mentalità, un modo d’essere, un sistema di aspettative) frutto della rivoluzione tecno-informatica degli ultimi vent’anni, che ha messo in crisi lo Stato del benessere e delle garanzie, la contrapposizione classista tra capitale e lavoro, l’ideologia dell’industrialismo, il mito del lavoro come fattore di civiltà e progresso. Senza essere un marxista, pare avere dato lezioni di materialismo storico a chi oggi lo accusa di essere una quinta colonna ideologica della destra liberale nel campo progressista. Il suo progetto politico sembra infatti costruito sulla realtà di un mondo, quello post-industriale-digitale, intriso di individualismo e valori post-materialistici, che i suoi avversari di sinistra di ostinano a negare, prigionieri come sembrano essere rimasti di un modello di sviluppo legato ancora alle fabbriche, ai grandi apparati burocratici e al posto di lavoro a vita garantito dalla sfera statale.
Il caso del sindacato è emblematico. La sua delegittimazione agli occhi di un vasto settore dell’opinione pubblica non nasce dal fatto di essere rimasto, dopo la liquefazione dei partiti, l’ultimo grande (e costoso) apparato politico-organizzativo, per questo percepito come incline all’autoconservazione più che all’innovazione. Ma dall’essere una struttura culturalmente arretrata rispetto ai modelli di lavoro che oggi si sperimentano e si vanno affermando; dall’avere privilegiato la difesa corporativa di fasce determinate di lavoratori (quelli cosiddetti protetti e garantiti) rispetto al mondo del lavoro nella sua globalità; dall’aver spesso operato come struttura collaterale al mondo politico-partitico, a scapito della propria autonomia.
Il risultato di questo ritardo, come si vede in questi giorni, è il duplice fuoco che esso deve affrontare: da un lato, prevedibilmente, quello della sinistra renziana, che ha deciso di smetterla con l’antagonismo ideologico nei confronti del mondo padronale e con un modello di concertazione che aveva consegnato al sindacato una sorta di diritto di veto nei confronti dell’attività di governo; dall’altro, ed è una novità interessante, quello della sinistra antagonista e radicale, che auspica la nascita, sulle rovine del sindacalismo politico novecentesco, gerarchico, basato sulla cooptazione e sin troppo legato alla difesa dello status quo, di un sindacalismo sociale, auto-organizzato dal basso e flessibile nei suoi obiettivi, che tenga conto delle istanze che vengono non solo da operai, pubblico impiego e pensionati, ma dai giovani, dai precari, dai non garantiti, da quegli stessi lavoratori autonomi a partita iva considerati sino all’altro giorno la zoccolo militante del berlusconismo.
Il paradosso di questa situazione è che sia Renzi sia i fautori del movimentismo sindacale ritengono di dover parlare agli stessi elementi sociali, che i sindacati tradizionali non hanno saputo sino ad oggi rappresentare. Il primo vuole renderli il motore di un modello di sviluppo che esalti sempre più il dinamismo sociale, la creatività individuale, la valorizzazione del merito e del talento, la sinergia tra impresa e lavoro. L’approvazione del Job Acts, oltre che una richiesta imperativa dell’Europa per garantire qualche margine di flessibilità all’Italia sui conti pubblici, dovrebbe dare impulso proprio a questo disegno. Il secondo, sfruttandone il malcontento attuale e le paure rispetto al futuro, pensa invece ad aggregarli per farne il fondamento di una nuova forma d’antagonismo sociale e politico, senza che ciò debba necessariamente sfociare nella creazione di un nuovo soggetto partitico, che nascerebbe screditato in partenza.
Ieri Renzi ha accusato questo mondo, che sembra avere in Landini il suo portavoce più credibile, di voler drammatizzare il tema del lavoro per produrre una pericolosa spaccatura nel Paese. Probabilmente si tratta di una forzatura polemica. Di certo la spaccatura, difficilmente componibile e per molti versi storica, si è prodotta nella sinistra, anche se con vent’anni di ritardo.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 4 novembre 2014
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