di Corrado Ocone
Raymond Aron (1905-1983), pur essendo stato uno dei pensatori più importanti e influenti del secolo scorso, è poco frequentato dalla critica italiana. Il suo modello di uomo di cultura è in effetti molto lontano dagli stilemi dominanti: non è stato né un accademico chiuso nella torre d’avorio della ricerca pura; né un intellettuale engagé, impegnato cioè ad avvalorare e a promuovere con i suoi studi un’idea di società e di mondo diverso da quello esistente. Al contrario del suo amico/avversario Jean Paul Sartre, che di quest’ultimo prototipo di intellettuale fu il campione per eccellenza, Aron «dall’esercizio diretto del potere si è sempre tenuto lontano, ritenendolo incompatibile con la libertà richiesta allo studioso di politica». Lo sottolinea Alessandro Campi, autore di una riuscita monografia sul pensatore francese che esce in questi giorni per i tipi di Rubbettino: La politica come passione e come scienza. Saggi su Raymond Aron (pagine 200, euro 14). Non era facile, in effetti, tenere unite e in tensione le diverse ma non contraddittorie anime di un pensatore così originale e, pur nella chiarezza dello stile di scrittura, complesso e polimorfo.
Campi ci è riuscito, soprattutto perché non si è incamminato sulla strada facile del riduzionismo o della semplificazione. Liberale Aron? Certo, ma la sua prospettiva ha poco o nulla a che vedere con quella dei teorici o dottrinari astratti del liberalismo di cui era pieno il suo e il nostro tempo. Un realista politico? Non c’è dubbio, ma con l’avvertenza di non poco conto che il suo realismo non negava affatto il ruolo dei valori e persino delle utopie nella politica e storia umane. Storicista? Non c’è dubbio, ma senza divinizzare la storia e anzi ricalcando con forza l’elemento della decisione el politico, e in genere della libertà e responsabilità umane, e quindi dell’imprevedibilità del futuro. Moralista? Sì, ma nel senso francese e classico del termine: egli, sulla scia dei suoi maestri (Montaigne, Montesquieu, Tocqueville, Weber) predicò sempre una “morale della saggezza” che tenesse fermi i principi ma che sapesse calibrarli e renderli praticamente efficaci con l’esercizio della “prudenza”, la virtù per eccellenza dell’uomo laico. Fu, infine, un conservatore, Aron? Sì, ma atipico: la destra che egli aveva presente aveva definitivamente fatto i conti con la modernità e l’industrialismo, era contro il progressismo come ideologia (quella che egli vedeva in opera nel Sessantotto francese, con le sue retoriche e ipocrisie) ma non contro il cambiamento graduale e rispettoso della continuità storica e della tradizione.
Una destra possibile che è sempre, fra l’altro, stata assente nel panorama italiano, come ci spiega in questo libro Campi in pagine coinvolgenti anche perché richiamano la sua esperienza vissuta e personale. Non ha torto Campi a definire “machiavellismo moderato” la prospettiva aroniana: secondo lui, «il realismo – correttamente inteso – non ha nulla a che vedere con il cinismo, con il relativismo dei valori e con il compiacimento nichilistico di chi vede il mondo sempre eguale a se stesso».
Aron fu uno strenuo difensore dell’Occidente, delle sue libertà e delle sue istituzioni, anche contro il generale De Gaulle, il cui filoarabismo in funzione antíisraeliana gli sembrava ingiusto e venato pure da un certo latente antisemitismo. Nessuno come Aron, si può dire, ha dimostrato come l’onestà intellettuale sia il dovere primo e ultimo dell’uomo di cultura.
* Articolo apparso su “Il Messaggero” del 23 dicembre 2015.
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