di Spartaco Pupo

L’ultima, in ordine di tempo, è quella sulla vendita dei beni dello Stato, paragonata al “compro oro”. Ma di metafore Matteo Renzi ne spara a raffica, tanto che ad essere eccezionali nelle sue uscite pubbliche non sono più gli abbellimenti allegorici, ma le cose serie a cui si riferiscono. Una cosa seria come la volontà di fare le riforme, per esempio, qualche settimana fa è stata prospettata con la metafora del “caterpillar” da preferire all’inutile “cacciavite” dell’attuale presidente del consiglio.

Quello che più colpisce dello stile del politico-linguista Renzi è che non sempre, anzi quasi mai, all’uso della metafora semplificatrice e “populista” seguono atti concreti e coerenti.

Ha iniziato strategicamente con la “rottamazione”, per apparire agli occhi degli elettori del Pd e di tutti gli italiani come il rinnovatore dei processi politici, del gruppo dirigente del suo partito e in generale della classe politica del Paese. Alla prova dei fatti, cioè alla vigilia del congresso del Pd, eccolo spalancare le porte della sua corrente, specie al Sud, a un esercito di ex parlamentari della primissima repubblica, ex democristiani e socialisti, maestri di clientelismo, abili raccoglitori di tessere sempre utili alla causa, che improvvisamente si scoprono fieramente renziani, intravedendo nel metaforico “adesso” nient’altro che l’attimo da cogliere al volo per la loro possibile sopravvivenza. La tuta da “riciclatore”, sempre per dirla con una metafora, ha sostituito quella da “rottamatore”.

Ma mutate, nell’arco di qualche mese, sono anche le strategie e le tattiche dell’ex rottamatore, come la brusca virata a sinistra dopo l’iniziale e per molti versi credibile apertura all’elettorato deluso dal berlusconismo. L’unico aspetto in cui Renzi sembra mostrare continuità e fermezza è proprio la comunicazione metaforica. Ne abbiamo sentito di tutti i tipi. “Holly e Benji” per dire che dovevamo vedere tre puntate di quel cartone animato per capire se si riusciva a segnare, come metafora della politica al rallentatore. Il “ciclismo” per dire che in politica la squadra è utile per portarti avanti ma che non basta se non c’è un campione capace di scattare e tagliare il traguardo. Il sentirsi vittima del “tiro al piccione”. Il volere “asfaltare” il Pdl. L’avere imparato dall’“arbitro” come si fa a decidere senza rinviare.

Persino Bersani, a un certo punto, deve aver pensato che per tenere testa a Renzi bastasse dire una metafora al giorno più di lui. Di qui le uscite dell’ex segretario del Pd a suon di “tacchini sul tetto”, “siam mica qua ad asciugar gli scogli” o “a pettinar le bambole” – affermazioni talmente bizzarre da far dire a Umberto Eco, uno che di semiotica se ne intende, che quelle di Bersani erano nient’altro che “esempi paradossali”, i quali, pronunciati da un segretario di partito, diventavano slogan ufficiali. Fatto sta che la battaglia politica tra i duellanti alle precedenti primarie del Pd è andata avanti, più che a scambi di opinioni, a suon di invenzioni della metafora più bella e simpatica, come ebbe a riconoscere lo stesso Renzi quando, nel duello televisivo con Bersani su Raiuno, arrivò ad ammettere: “Per fare il leader bisogna saper fare le metafore”. Il consenso della base, il carisma, la preparazione culturale, la formazione politica, l’esperienza, l’acume tattico, il pragmatismo, la lungimiranza – tutto è relativo se non si è bravi a fare le metafore.

Ora, che la metafora sia una forma importante di comunicazione e che in politica, più che in altri ambiti, essa serve a ridurre le difficoltà di descrizione e rappresentazione di determinati concetti e a far meglio comprendere comportamenti, connotati e oggetti del pensiero, non è certo Renzi a scoprirlo. La storia del pensiero politico è piena di paragoni tratti dal mondo animale, vegetale e umano, dal “leone e la volpe” di Machiavelli, illustrissimo concittadino di Renzi, agli “agnelli e uccelli dei campi” di Nietzsche fino al “guardiano notturno” di Nozick, passando per la metafora organicistica del “corpo” che ha attraversato secoli di teorie sullo Stato. Sul piano della politica pratica il ricorso alla metafora nella comunicazione pubblica non è mai stata, almeno fino all’avvento del fenomeno Renzi, molto frequente, tanto che per rintracciare un leader politico del passato che ne abbia colto il potere evocativo bisogna forse arrivare, con i dovuti distinguo, fino a Mussolini e alla sua famosa immagine del “chirurgo dello Stato”, quasi un secolo fa.

Un conto è, inoltre, servirsi ogni tanto delle metafore per chiarire concetti di non facile comprensione, enfatizzare questioni e magari conquistare la complicità dei destinatari del messaggio metaforico, un altro è bombardare di metafore il pubblico nel tentativo di guadagnarsene a tutti i costi la “simpatia” – che è ciò che i tecnici della materia chiamerebbero “presunzione d’accordo”. Un conto è illustrare metaforicamente un ragionamento per renderlo fruibile al maggior numero di persone possibile, un altro è arrivare a parlare quasi esclusivamente per metafore, imponendone la insostituibilità sulla scena politica addirittura come fattore determinante per il riconoscimento di un leader come tale.

Il rischio dell’abuso delle associazioni e delle analogie simpatiche è forse più alto di quello che lo stesso Renzi e i suoi spin doctor potrebbero immaginare: inflazionarne il senso per ottenere il risultato opposto, e cioè l’antipatia, il graduale “distacco” dei destinatari e magari anche la svalutazione di temi e problemi seri che la politica ha l’obbligo di affrontare e risolvere con atti concreti. Ed è forse il caso, a parte la più o meno spiccata simpatia che riesce a trasmettere il sindaco di Firenze, che si cominci a scongiurare seriamente il pericolo di dar vita all’Italia di Pinocchio, metafora di un paese di bugiardi, burattini, asini, grilli parlanti, gatti e volpi, Mangiafuoco e fatine. Altrimenti finiremmo per dare ragione a Prezzolini, altro concittadino illustre di Renzi, il quale già nel 1923 diceva che se si fosse compresa appieno la favola di Pinocchio, si sarebbe compresa l’Italia. Con la differenza che, mentre una volta Pinocchio rappresentava la metafora della costruzione dell’Italia, oggi diventerebbe per davvero il simbolo di ciò che studiosi autorevoli, come l’americana Suzanne Stewart-Steinberg, già descrivono come la “vacuità” del soggetto italiano, un cittadino che, proprio come Pinocchio, è alla continua ricerca di una identità. Per sé, per il suo partito, per il suo Paese.

 

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