di Alessandro Campi
Se non siamo alla scissione, poco ci manca. Anche se prima di consumare un gesto politicamente traumatico e potenzialmente irreversibile è plausibile che i diretti interessati tentino in ogni modo un gesto di conciliazione o un accordo, almeno tattico. Il prossimo 13 giugno, in quel di Napoli, le divisioni che stanno lacerando Forza Italia assumeranno una forma plastica: due manifestazioni per così dire entrambe ufficiali si svolgeranno pressoché in contemporanea nel capoluogo campano, una avendo come protagonista Raffaele Fitto e i dissidenti del berlusconismo (tra i quali Mara Carfagna), l’altra alla quale interverranno, insieme a Giovanni Toti, i berlusconiani di provata fede o ortodossi, a partire dal governatore campano Caldoro.
La tentazione di liquidare la vicenda in una chiave localistica è ovviamente forte e sarebbe persino giustificata. La sovrapposizione tra le due iniziative di uno stesso partito potrebbe in fondo essere rubricata alla stregua di un dispetto tra cacicchi e le rispettive cordate sul territorio, magari finalizzato ad una conta interna, ad un gioco di riposizionamento o alla ricerca di nuovi equilibri di forza nella prospettiva dei prossimi appuntamenti elettorali.
Ma il fatto locale, se ben interpretato, ci dice molto in realtà su come stanno evolvendo le cose all’interno del mondo berlusconiano. Colpisce, innanzitutto, che mentre si parli di ricomporre il fronte moderato, dopo la batosta elettorale dello scorso 25 maggio, in realtà quello che si va profilando è il rischio di un’espulsione di Fitto o di un suo volontario abbandono. Forte delle molte preferenze che gli elettori, in occasione del voto europeo, gli hanno accordato nel collegio meridionale, ben superiori a quelle ottenute al Nord dal consigliere politico del Cavaliere, il neofita Toti, Fitto chiede da settimane un ricambio nei gruppi dirigenti (da conseguire attraverso lo strumento delle primarie) e, soprattutto, un riconoscimento del suo oggettivo peso politico. Ma sinora si è sentito rispondere picche: in forma obliqua e sofferente direttamente da Berlusconi, che sembra ormai considerarlo un corpo estraneo alla sua creatura, e in forma ora colorita ora aggressiva dal gruppo di vertice del partito, che dà l’impressione di volersene presto sbarazzare come già si è fatto prima con Fini, poi con Alfano.
Ma significherà qualcosa che Forza Italia, da qualche anno a questa parte, proceda per scissioni e separazioni affatto consensuali? Si tratta, come sempre dice Berlusconi, del tradimento, della mancanza di lealtà e dell’ambizione di singoli o di un processo politico che ha a che vedere – oltre che col suo strano modo di intendere la leadership e il potere – col modo con cui il partito berlusconiano si è strutturato e organizzato nel corso degli ultimi anni?
Si è detto, prima di Forza Italia, poi del Popolo della libertà, che erano formazioni al tempo stesso monocratiche e anarchiche: controllate con mano ferma dal leader carismatico a livello centrale, gestite in modo feudale in periferia dai ras che a quest’ultimo dovevano soprattutto assicurare fedeltà e osservanza. Berlusconi era il capo intoccabile, colui che garantiva l’unità della linea politica e la tenuta della coalizione di centrodestra. I boss locali, da lui scelti e nominati, erano quelli che in cambio di una relativa autonomia d’azione gestivano il partito per suo conto, senza mai doversi sottoporre ad una conta interna o dover temere quella che negli altri partiti è normale competizione.
Ora che Berlusconi ha perso, per le note vicende politico-giudiziarie, parte notevole della sua capacità aggregante, le fazioni sul territorio e le cordate interne al partito hanno fatalmente acquisito un peso crescente, accentuando le spinte centrifughe. Da qui appunto i rischi incombenti di scissioni, le lotte personali, i giochi d’alleanza che ognuno sul territorio gestisce di testa sua (come ha appunto fatto Caldoro in Campania da ultimo, con la sua scelta di mettersi a civettare, addirittua, con quel che resta dei bassoliniani), l’incapacità a tenere una condotta omogenea in occasione degli appuntamenti elettorali.
La cosa che depone in modo preoccupante nel caso di Forza Italia è che queste spinte in senso feudalistico si stanno manifestando nel mentre gli altri partiti tendono a presentare un profilo, elettorale ed organizzativo, sempre più nazionale. Il successo di Renzi ha fatto perdere al Pd la caratterizzazione di partito la cui egemonia storicamente non oltrepassava i confini delle regioni cosiddette rosse. Un partito i cui consensi si distribuiscono in modo omogeneo sul territorio è stato, sin dal suo esordio, quello di Grillo. Ma persino la Lega, dacché ha abbracciato la linea politica del Front National, ha smesso di presentarsi (almeno tatticamente) come il partito del Nord: alla propaganda secessionista ha sostituito quella antieuropea e il suo segretario Salvini non ha disdegnato, durante la campagna elettorale, incursioni sulle piazze meridionali.
Rispetto a questo quadro, Forza Italia appare invece combattuta tra gli ondeggiamenti di linea del suo storico leader, la cui aspirazione massima in questo momento sembrerebbe quella di costruirsi un presidio elettorale intorno al 15% grazie al quale salvaguardare gli interessi imprenditoriali della famiglia, e la tendenza ad autonomizzarsi, per contare sempre di più sui rispettivi territori e in vista della guerra per la successione al capo che prima o poi scoppierà, dei cacicchi o boss locali. Il problema è che Berlusconi, capo di un partito che volutamente non si è mai dato regole attraverso le quali decidere, tessere e voti alla mano, gli incarichi e i posti di responsabilità interne, non intende mollare la presa o fare aperturea in senso democratico. E dunque i più frementi o ordinariamente ambiziosi tra i suoi uomini non possono che trovarsi, prima o poi, dinnanzi all’alternativa se allinearsi alla volontà del leader o andarsene per la propria strada. Esattamente il bivio dinnanzi al quale si trova oggi anche Fitto.
Quella del Nuovo centrodestra fu una scissione essenzialmente siculo-romana (cui si aggiunse la scheggia nordista facente capo a Comunione e liberazione). Quella di Fitto potrebbe essere una scissione in chiave pugliese-campana. Con Verdini che detta legge nel Centro Italia, a partire dalla Toscana, a Berlusconi resta la certezza che nessuno lo insidierà mai nell’area lombarda, dove ormai si concentra tutto il suo potere politico-mediatico-affaristico. Triste destino per un partito che volle chiamarsi “Forza Italia” e che un tempo marciava compatto e trionfante dal Triveneto alla Calabria.
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