di Alessandro Campi

untitledL’eleggibilità diretta dei senatori è dunque la frontiera politico-simbolica sulla quale la minoranza di sinistra del Partito democratico ha deciso – a costo d’immolarsi – di portare il suo attacco finale a Matteo Renzi.

Ieri Bersani – che dell’opposizione interna è un po’ il leader morale, oltre che l’esponente all’apparenza meno aggressivo – ha fatto sapere che non voterà mai la riforma voluta dal suo segretario (che invece prevede la nomina o designazione dei futuri senatori ad opera dei consigli regionali) solo per disciplina di partito e per lealtà alla causa. Sembra aver dimenticato che disciplina e lealtà, rispetto alle decisioni del proprio vertice, sono stati i tratti distintivi del suo universo politico sino a che la parola “comunismo” ha avuto un senso. In realtà ha anche detto di preferire l’accordo politico allo scontro parlamentare. Ma se la sua fazione non ritira gli emendamenti che ha presentato, visto che Renzi di cedere o di ricominciare tutto daccapo non ha alcuna intenzione, la resa dei conti sembra a dir poco inevitabile.

Le conseguenze? In caso di vittoria in Parlamento dei dissidenti, cambieranno gli equilibri all’interno di quello che fu, in un’altra era geopolitica, il partito dei comunisti italiani: ciò che rimane di questi ultimi, dopo le tante umiliazioni subite ad opera del giovane fiorentino, avranno il loro risarcimento morale e potranno tornare a contare qualcosa.

In caso di sconfitta, alle prossime elezioni gli italiani troveranno, con ogni probabilità, un simbolo di partito in più sulla scheda elettorale. La storia della sinistra è d’altronde fatta di scissioni e divisioni: una più, una meno non fa una grande differenza. Anche se resta il sospetto che quello nascente dall’unione di Fassina-Landini-Civati-Cuperlo-Vendola (e via aggregando gli altri nemici del renzismo) più che un nuovo partito della sinistra possa risultare un monstrum ideologico di nessuna presa anche per coloro che dovrebbero votarlo.

In realtà quella appena offerta può sembrare, agli occhi di qualche lettore, una caricatura. Ci siamo infatti dimenticati di dire che la vera posta in gioco dello scontro politico in atto non è l’equilibrio delle forze all’interno di un partito, ma come sempre accade quando si prova a toccare qualcosa nel funzionamento della macchina istituzionale della repubblica il futuro della nostra democrazia.

Anche stavolta c’è (dovremmo dire per fortuna) una minoranza virtuosa e volitiva che ha scelto di battersi con ogni mezzo contro le cattive intenzioni di chi sta al governo e vorrebbe sfigurare, per prendersi tutto il potere, la nostra bellissima e perfettissima Costituzione. Inutile far notare che grazie a questo schema retorico-propagandistico – applicato ieri contro Craxi e Berlusconi, oggi contro Renzi, ritenuto da alcuni, non a caso, il degno emulo di entrambi – nell’arco degli ultimi quarant’anni si è riusciti a far naufragare qualunque ipotesi di Grande o Piccola Riforma, per quanto richiesta a gran voce dall’opinione pubblica o ritenuta necessaria dalla maggior parte delle forze politiche. Evidentemente si punta a ripetere il copione, nel convincimento che l’unica alternativa della politica italiana sia tra l’immobilismo e lo spirito di avventura dell’aspirante autocrate di turno.

Ieri era l’8 settembre, giornata che nell’immaginario nazionale evoca lo sbraco dello Stato, la deriva anarchica della società, la fuga dei potenti dalle loro responsabilità e soprattutto l’idea che l’Italia sia una realtà strutturalmente incapace di mostrarsi politicamente unita o coesa sulle questioni di interesse collettivo, condannata alle divisioni settarie e agli odii partigiani.

In effetti come si possono fare le riforme costituzionali (anche solo modificare le modalità di composizione del Senato e le sue funzioni) e affrontare le emergenze piccole e grandi che scandiscono la vita di ogni collettività, come si può tentare di rilanciare l’economia o migliorare il funzionamento della macchina burocratica, se a livello di classe politica non ci si fida gli uni degli altri, se ogni progetto di cambiamento è denunciato da chi l’avversa come un tentativo di golpe o un attentato ai diritti fondamentali delle persone, se infine tra avversari ci si insulta in maniera ora colorita ora volgare tutti i santi giorni?

L’ex ministro degli Esteri Joschka Fisher ieri si è dichiarato orgoglioso del suo Paese e delle scelte della sua rivale politica Angela Merkel sulla questione dei profughi siriani. Al di là delle differenze ideologiche o di appartenenza, può evidentemente esistere, su alcune materie, un sentimento collettivo condiviso. Nelle democrazie civili funziona così’.

In Italia, sempre per restare sul tema dell’immigrazione Matteo Renzi l’altro giorno ha dato delle “bestie” ai leghisti (senza nominarli, ma l’obiettivo polemico erano proprio loro) e Salvini, per ricambiare la cortesia, gli ha dato del “verme” accusandolo di lucrare consensi sull’immagine di un bambino morto.

Questo è il clima nel quale si dovrebbero realizzare, come suole dirsi, “riforme condivise” o che dovrebbe consentire all’Italia di far sentire la propria voce in Europa. Nemmeno vale ricordare ciò che – si parli di scuola, di magistratura, di lavoro, di legge elettorale, di Europa o di tasse – Grillo e i suoi dicono dei loro avversari politici, ciò che la sinistra antiberlusconiana continua a pensare del Cavaliere, ciò che quest’ultimo prova nei confronti dei suoi nemici storici, il giudizio che gli antirenziani danno di Renzi o il modo con cui quest’ultimo reputa i suoi critici interni.

Negli ultimi anni si è sentito dire spesso, dinnanzi ai profondi cambiamenti del nostro sistema politico, che le categorie della destra e della sinistra erano da considerare inutili e finalmente superate, una cattiva eredità del passato. Avercele invece oggi una destra e una sinistra organizzate e ragionanti, tra di loro dialoganti in modo civile, capaci di dividersi ma senza mai perdere di vista l’interesse generale. Come una condanna storica ci tocca invece il triste spettacolo che abbiamo appena descritto.

 

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