di Alessandro Campi*

No, il rimpasto no. Per favore, tutto, la verifica, la cabina di regia, il vertice di maggioranza, ma non il rimpasto. L’esclamazione, al limite dell’implorazione, viene spontanea dinnanzi al rischio che le cronache politiche delle prossime settimane – quelle estive che un tempo coincidevano coi governi detti non a caso balneari – vengano occupate dall’ipotesi di un rimaneggiamento dell’attuale compagine di governo. Motivato ufficialmente dall’esigenza di rilanciarne l’azione e il programma attraverso il cambio di qualche ministro. Determinato in realtà, se mai dovesse realizzarsi, dal bisogno di assecondare le richieste dei partiti e delle loro correnti interne, che premono per nuovi equilibri e per conquistare nuovi spazi di potere all’interno della stanza dei bottoni.

Il rimpasto, per un governo che dovrebbe mandare all’opinione pubblica un segnale di novità nel modo di concepire l’impegno politico al servizio dei cittadini, dal quale ci si aspetta che faccia cose concrete ed efficaci a beneficio di questi ultimi in una situazione di crisi economica perdurante, sarebbe al tempo stesso un pessimo segnale e una perdita di tempo.

Da un lato verrebbe percepito – in primis dal punto di vista linguistico – come un ritorno al passato, alle costumanze e ai riti della deprecata Prima Repubblica, che la Seconda ha conservato pressoché intatti e ai quali anche il governo Letta, a quanto pare, è destinato a piegarsi. Il problema è che questa volta gli italiani – messi in ginocchio dalle difficoltà economiche e divenuti sprezzanti nei confronti del Palazzo e dei suoi rappresentanti – potrebbero non capire (e non apprezzare) un giro di poltrone ministeriali ad uso dei partiti spacciato per strategia di rilancio a beneficio dei cittadini. La credibilità del governo – che in poche settimane ha già perso un ministro (Idem) e un altro del calibro di Alfano stava per perderne – verrebbe fortemente intaccata da un rimpasto che le opposizioni avrebbero gioco facile a denunciare come il modo di fare tipico una classe politica arrogante, sganciata dalla realtà e interessata solo a spartirsi le poltrone.

 

Dall’altro lato, modificare l’attuale squadra di governo – una volta superato lo scoglio del voto di sfiducia contro Alfano richiesto dalle opposizioni – non si capisce a cosa possa servire e quali obiettivi concreti dovrebbe avere? Davvero si immagina che il responsabile del Viminale si dimetterà a settembre-ottobre dopo non averlo fatto nei momenti caldi della crisi politico-parlamentare provocata dal “caso Shalabayeva”? E se il problema non è più Alfano a quali altri ministri si pensa nella eventuale prospettiva di un rimpasto? Senza contare che modificare gli attuali incarichi di governo (anche nel caso ci si militasse a spostare qualche sottosegretario) significa impegnarsi per giorni e settimane in discussioni, trattative, polemiche e tensioni all’interno della maggioranza; significa cioè distrarsi rispetto agli impegni e agli obiettivi – sinora rimasti quasi per intero allo stadio di annuncio – per cui quest’esecutivo è stato formato.

Ciò detto resta da capire come è nata questa discussione su un rimpasto di governo. Il primo a evocarlo è stato – ahimé – lo stesso Presidente del Consiglio: allorché ha deciso di sostenere in Senato il suo ministro degli Interni, in vista del voto di sfiducia, ha anche fatto balenare la possibilità che in autunno, una volta calmatesi le acque sul pasticcio kazaco, ci potesse essere un avvicendamento al Viminale. Un modo forse per tranquillizzare l’elettorato di centrosinistra, che aveva visto nel sostegno concesso ad Alfano l’ennesimo cedimento a Berlusconi.

La stessa linea successivamente adottata dal segretario del Pd, Guglielmo Epifani, che ha cominciato a sostenere anch’egli la necessità di fare un “tagliando” al governo dopo la pausa estiva con l’obiettivo di renderlo più autorevole. Ma quel che non si è capito – secondo i commentatori più maliziosi – è se un tale rimpasto debba prevedere, oltre l’allontanamento di Alfano, anche qualche cambio tra i ministri che rappresentano il centrosinistra in vista dei nuovi equilibri interni che potrebbero scaturire dal congresso del Pd o che dovrebbero accompagnarne lo svolgimento.

Letta, compreso il rischio di ulteriori divisioni che la prospettiva di un rimpasto potrebbe comportare, per il suo governo ma anche per il suo stesso partito, ha fatto rapidamente marcia indietro e tramite il ministro Franceschini ha escluso categoricamente la necessità di cambiamenti. Sennonché nella discussione si è inserito, con spregiudicatezza e tempismo, il Pdl. Dopo averlo inizialmente escluso come un pericolo per la stabilità del governo, è adesso il partito di Berlusconi a premere per un rimpasto autunnale, con l’argomento che essendo Pd e Pdl distanziati elettoralmente solo da pochi decimali non è giusto che il primo, come ha sostenuto ieri Renato Brunetta, “abbia quasi il doppio dei ministri rispetto a noi”. E dunque serve – nel sempre vivace linguaggio politico italiano – non un rimpasto, non un tagliando, ma un riequilibrio.

Eccoci così precipitati, sul filo della tattica, in un dibattito del quale francamente non si avvertiva il bisogno, dai tratti persino surreali. E del quale c’è solo da sperare che, come i temporali che stanno squassando l’Italia e che presto dovrebbero lasciare il posto alla canicola, possa esaurirsi nel volgere di qualche giorno.

Il governo ha una forte maggioranza parlamentare, il suo programma è stato messo nero su bianco in modo chiaro, i ministri in carica sono quelli sufficienti (anche sul piano delle competenze) a governare l’Italia. Resta solo da capire se in autunno si riuscirà finalmente a mettere mano alle tante riforme promesse e a dare uno scossone all’economia. E nel caso ciò non dovesse avvenire certo non basterebbe cambiare qualche poltrona. Converrebbe piuttosto cambiare governo. O andare al voto.

* Articolo apparso su “Il Messaggero” di Roma il 22 luglio 2013 con il titolo Il rimpasto serve solo ai partiti, non al Paese.

 

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