di Alia K. Nardini
Sembrava proprio che Mitt Romney, dopo le vittorie in Florida e Nevada, fosse saldamente al comando nella corsa alla nomination Repubblicana. Ma a complicare – o quantomeno prolungare – l’andamento già estremamente discontinuo delle primarie del Grand Old Party, sono arrivate le vittorie dello scorso martedì che Rick Santorum ha riportato in Colorado, Minnesota e Missouri. Seppur il successo dell’ex Senatore della Pennsylvania fosse stato previsto piuttosto accuratamente dai sondaggi in due stati su tre – e in ogni caso non si è trattato di appuntamenti che prevedono l’assegnazione diretta di delegati – questo sviluppo non certo inaspettato, ma sicuramente importante, sottolinea il disagio che la corrente più conservatrice del partito prova nei confronti di Mitt Romney.
Sostanzialmente, il malessere è attribuibile a due fattori. Prima di tutto, i contenuti delle politiche di Romney: la riforma sanitaria che implementò quando era Governatore del Massachusetts appare troppo simile all’Obamacare, mentre le sue posizioni sull’aborto e sulle coppie omosessuali vengono percepite come eccessivamente liberali dall’elettorato conservatore. Anche riguardo agli aiuti a Wall Street ed alle grandi aziende in difficoltà (gli stanziamenti passati, ma anche possibili contributi futuri), Romney è considerato troppo accondiscendente, troppo vicino al mondo degli affari e della finanza per poter difendere gli interessi della gente comune.
Non si tratta però soltanto di idee: anche lo stile contribuisce ad allontanare i conservatori più tradizionalisti da quello che rimane ancora il più probabile candidato alla nomination Repubblicana. Sono difatti le doti principali di Romney, il suo autocontrollo e la sua competenza, a tracciare spesso un divario tra la sua persona e gli elettori. Nella campagna Repubblicana, la maturità politica, la pacatezza nell’affrontare le sfide e l’approccio manageriale non sembrano rappresentare un aspetto importante quanto la capacità di emozionare, di infiammare gli animi, di saper alzare uno stendardo di battaglia che accomuni tutti i conservatori sotto un’unica bandiera.
Dunque i Repubblicani sono ancora divisi tra un candidato che ha indubbiamente i modi per sedere alla Casa Bianca, ma che manca di entusiasmo (Romney); e un candidato appassionato ed appassionante (Gingrich), che non ha problemi a giocare scorretto e potrebbe realmente mettere in difficoltà Obama in un testa a testa; ma che viene penalizzato nella corsa alla nomination proprio perché improbabile e imprevedibile, nonché per alcune sue proposte decisamente bizzarre (tra tutte, la base spaziale sulla luna).
Anche procedendo per esclusione, si arriva quindi a Rick Santorum, che piace perché dimostra un autentico trasporto sui temi valoriali, combatte per ciò in cui crede senza temere di schierarsi a favore di punti di vista impopolari e sa energizzare la base del partito. Ciò nonostante, Santorum non ha assolutamente le risorse per arrivare a fine campagna, e dunque mettere in difficoltà Romney – per non parlare di Barack Obama. L’unico che può batter Obama, quantomeno a livello di impegno finanziario prolungato in campagna elettorale, resta l’ex Governatore del Massachusetts.
Per parte Democratica, ci si sta organizzando proprio per far fronte a questa possibilità. Lo annuncia il consigliere della campagna di Obama Jim Messina, dichiarando in un comunicato – in completa controtendenza al 2008 – che il Presidente accetterà il supporto economico del super PAC che lo sostiene (il comitato di azione politica che può raccogliere fondi illimitati senza incorrere nei vincoli imposti dalla legge elettorale). La decisione di Obama di ricorrere ai super PAC, dopo aver pronunciato parole di fuoco che stigmatizzavano questa pratica solo quattro anni fa, ha offerto un bersaglio facile ai Repubblicani e ha suscitato altresì pesanti critiche in ambito Democratico (tra cui quelle del Senatore Russ Feingold, che insieme a John MacCain si era adoperato per limitare i finanziamenti e l’influenza delle corporations in politica); tuttavia, inietterà nuova liquidità nella campagna del Presidente, garantendogli risorse importanti per far fronte a quella che già si profila come la sfida più costosa nella storia elettorale statunitense.
Vanno a favore del Presidente in carica gli ultimi dati sull’occupazione, scesa all’8.3%, e i 243mila nuovi posti di lavoro creati nel mese di gennaio, che hanno fatto risalire la fiducia degli americani nei confronti della situazione economica del paese (non accadeva da quasi un anno). Aumenta anche la stima per l’operato di Obama, ora al 49% secondo l’ultimo sondaggio Gallup. Tutto ciò fa presagire che l’economia continuerà molto probabilmente a dominare nel dibattito presidenziale, seppur non è più così certo che costituirà l’unico tema su cui si decideranno le elezioni di novembre. La situazione in Siria, sempre più drammatica, ed il sempre maggior pericolo di un Iran nucleare (nonché di un eventuale attacco da parte di Israele) potrebbero costringere il Presidente a prendere decisioni impopolari – e dispendiose – in politica estera. Anche i temi etici stanno tornando alla ribalta, come dimostrano le più recenti controversie riguardo al disegno di legge avanzato dall’Amministrazione Democratica, che inizialmente richiedeva alle istituzioni parareligiose di coprire i costi assicurativi delle loro dipendenti anche per la contraccezione e l’interruzione di gravidanza. Seppur Obama abbia rivisto precipitosamente i dettagli del piano, trasferendo i costi dai datori di lavoro alle assicurazioni, la Chiesa cattolica e il Partito Repubblicano hanno seguitato ad avventarsi compatti contro la manovra, che denunciano come un attacco alla libertà religiosa garantita dal Primo Emendamento della Costituzione.
Riguardo ai temi etici, Santorum è in assoluto il candidato più credibile, che nega qualsiasi diritto all’aborto e si oppone rigorosamente alle unioni omosessuali (altro tema che è tornato alla ribalta, dopo che una corte d’appello federale ha rigettato il divieto pronunciato dalla California riguardo ai matrimoni gay, demandando la questione alla Corte Suprema). Ciò nonostante, gli elettori non sembrano affatto volersi raccogliere intorno ad un unico candidato, non soltanto per le diverse personalità ed idee che i singoli aspiranti alla presidenza rappresentano, bensì forse proprio perché i vari temi della sfida elettorale –i valori etici, l’economia, la libertà – contano per i cittadini americani in modo diverso, spesso esclusivo ed esclusivista.
Molto probabilmente, non ci saranno certezze neppure dopo il Super Tuesday, il 6 marzo (in cui votano ben 10 stati, per un premio di 437 delegati in totale – quasi la metà dei 1144 necessari ad assicurarsi la nomination, contando le preferenze già assegnate). Saranno decisive anche le primarie del Texas del 3 aprile (155 delegati in palio), che sembrano favorire Gingrich; mentre la California, con i suoi 172 delegati, voterà il 5 giugno con un sistema maggioritario secco (winner takes it all). Si tratta, senza dubbio, di uno scenario inedito ed avvincente.
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