di Spartaco Pupo*
Se Barak Obama è l’uomo della “speranza”, avendo fatto di questa virtù un cavallo di battaglia della sua campagna elettorale e di questo primo mandato, un suo predecessore ne ha rappresentato l’incarnazione vera e propria. Si tratta di Ronald Reagan, ricordato ancora oggi con affetto e nostalgia dagli americani, come dimostra il crescente numero di libri, film, conferenze e iniziative culturali finalizzate a celebrarne il profilo di uomo e di statista.
Giunto alla presidenza dopo gli anni bui di Richard Nixon, Gerald Ford e Jimmy Carter, Reagan ha ridato speranza agli americani, a tutti gli americani, anche a quelli di fede democratica, tanto che lo stesso Obama recentemente non ha potuto fare a meno di riconoscerne la capacità di trasmettere al suo popolo un eccezionale “senso di confidenzialità” e una “irresistibile carica di ottimismo”.
Il “Grande Comunicatore”, l’anticomunista tenace, colui che da Berlino invitò “Mister Gorbaciov” a buttar giù il Muro, ammalia ancora buona parte degli americani che l’anno scorso ne hanno commemorato il centesimo anniversario della nascita (6 febbraio 1911) in tutto il paese, dalla cittadina natale di Tampico ai più importanti circoli culturali statunitensi, e non solo di area repubblicana.
La misura di un così vivo interesse intorno alla figura di Reagan è anche la costante affluenza alla Reagan Library, a Simi Valley, in California, che sin dal 1991, l’anno in cui è stata inaugurata, continua ad essere meta quotidiana di pellegrinaggi provenienti da ogni angolo del paese.
Oltre alla celebre autobiografia del 1990, An American Life, e ai suoi diari postumi, a riscuotere grande successo nel pubblico dei lettori americani sono in questi ultimi anni le biografie del presidente. The Regan I Knew, di William Buckley, fondatore della National Review, è andato letteralmente a ruba nelle librerie statunitensi, al pari degli altri titoli sul carattere e la vita privata di Reagan, come Ronald Reagan: How an Ordinary Man Became an Extraordinary Leader (1999) di Dinesh D’Souza e la raccolta The Humor of Ronald Reagan (2011) a cura di Malcom Kushner.
Destinata a eguale successo è certamente Ronald Reagan, la biografia edita per i tipi della Greenwood di Westport, lo scorso mese di gennaio da J. David Woodard, professore di Scienze politiche all’Università di Clemson, nella Carolina del Sud, nonché uno dei più accreditati studiosi di Reagan e del movimento conservatore americano.
Un sentimento di nostalgia così profondo e diffuso, secondo Woodard, si può spiegare come conseguenza di una grande popolarità che raggiunse la punta massima nel 1984, quando Reagan ottenne il secondo mandato presidenziale con un consenso plebiscitario mai visto nella storia degli Stati Uniti e mai più eguagliato dai presidenti successivi, i quali, in verità, non hanno beneficiato delle circostanze storiche che concorsero a determinare la vastità di quel consenso. Essi in compenso – fa osservare Woodard – hanno goduto dei profondi cambiamenti di tipo sociale e politico di cui Reagan, e solo lui, si è reso protagonista, fino al punto che tutti, Obama compreso, sono diventati “reaganiani sia nella retorica che nel portamento”. Ma quelli che vennero dopo di lui si avvantaggiarono soprattutto degli effetti positivi delle sue imprese storiche: il risanamento dell’economia americana e la vittoria della guerra fredda.
Già, la guerra fredda. Se c’è un merito che va obiettivamente riconosciuto a Reagan è, per Woodard, l’averla vinta “senza che si sparasse neanche un colpo”. Un unicum, questo, che si accompagna ad altre “stranezze” tipiche del personaggio, prima fra tutte quella di essere “una rosa conservatrice in mezzo alle spine liberali”. Reagan è infatti passato alla storia non solo come il candidato repubblicano che vinse le elezioni dopo una ventennale egemonia democratica ma anche come il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a dichiararsi fieramente “conservatore”. La sua permanenza alla Casa Bianca, non a caso, coincise con la “rinascita conservatrice” nei campus universitari, nell’editoria, nel giornalismo e nell’intero mondo culturale americano.
Sul conservatorismo di Reagan, ad ogni modo, e a dispetto delle certezze di Woodard e di altri studiosi, come Jane Kirkpatrick, che parlava di Reagan come “fenomeno conservatore”, Robert Nisbet, contemporaneo del presidente nonché uno dei più influenti intellettuali conservatori d’America, era pronto a giurare, in Conservatism: Dream and Reality, del 1986, che la vera anima del presidente Reagan non fosse né repubblicana né conservatrice ma addirittura democratica, del tipo New Deal. Non si spiegherebbero altrimenti le sue frequenti citazioni di Roosevelt e Kennedy come precedenti nobili delle sue imprese, al posto di Coolidge, Hoover o Eisenhower. La parola rivoluzione, inoltre, usciva dalla bocca di Reagan per ogni cosa, dalla riforma del fisco alla lotta alla droga. E anche la sua passione per le “crociate” morali e militari – concludeva Nisbet – era difficile da inquadrare nell’etica conservatrice.
La verità è che Reagan resta un personaggio enigmatico, e in ciò sta la sua più evidente stranezza. Aveva un modo di fare – ricorda Woodard – con cui riusciva attirare flotte di seguaci e ammiratori, tenendoli però sempre a una certa distanza. Per questa particolarità del suo carattere rimase fino all’ultimo un “mistero” per molti dei suoi amici, anche quelli più intimi.
Woodard ricorda le origini umili di Reagan, la povertà della sua famiglia distrutta dall’alcolismo, l’infanzia difficile trascorsa in un college religioso, l’esperienza di presentatore sportivo e di attore alle dipendenze della Warner Bros. La semplicità, il suo bell’aspetto, il carisma e il senso dell’umorismo gli aprirono “le porte del popolo”, che lo elesse nel 1966 e nel 1970 governatore della California e nel 1980 e nel 1984 quarantesimo presidente degli USA.
Nessuno più di lui stesso – rileva Woodard – rimase meravigliato della sua esaltante storia personale, che riusciva a spiegarsi solo identificandosi con il “carattere” proprio della nazione che guidava, come rivelò alla Convention nazionale dei Repubblicani del 1984: “Anche la più piccola delle opportunità è ancora preziosa in questo Paese”.
In quest’identificazione con lo spirito vero dell’America sta la più credibile spiegazione del “mistero Reagan” che, a prescindere dalle stranezze e dai lati oscuri che pure emergono dalle sue biografie, un osservatore attento come Buckley definiva, forse a ragione, come “l’ultimo successo della storia americana”.
*Docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria e senior fellow presso l’Istituto di Politica
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