di Fabio Polese
Beirut. All’inizio del campo profughi di Chatila, tra i bazar e il traffico, tra il fumo dei motorini e le voci dei bambini che provano a venderti qualcosa, un cancello arrugginito aperto delimita l’ingresso del cimitero: nel centro del piccolo spiazzo c’è una lapide per ricordare i defunti e, ai lati, due striscioni con delle foto sbiadite commemorative; più a destra, alcuni murales in bianco e nero raffigurano lo strazio e la paura. E’ quanto, trent’anni dopo, rimane del ricordo del «massacro di Sabra e Chatila» accaduto tra il 16 e il 18 settembre del 1982.
In quei giorni, a Beirut Ovest, le milizie cristiano-falangiste, guidate da Elie Hobeika, compirono la mattanza di circa duemila persone tra uomini donne e bambini – non solo palestinesi – con l’appoggio, probabile, dell’esercito israeliano che controllava la zona dopo che, con l’operazione denominata «Pace in Galilea», aveva invaso il Paese dei Cedri il 6 agosto del 1982. All’alba di sabato 18 settembre i falangisti si ritirarono e, quando i giornalisti stranieri e la Croce Rossa riuscirono a entrare, l’immagine che gli si presentò davanti era spaventosa. Elaine Carey, all’epoca inviata per il quotidiano inglese «Daily Mail», racconta che «… l’odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente». Nessuno è mai stato condannato per il massacro di Sabra e Chatila; il comandante Elie Hobeika, che avrebbe dovuto recarsi all’Aja per fare rivelazioni sul presunto coinvolgimento di Israele nella strage, è morto nel gennaio del 2002 in un attentato che molti hanno definito «misterioso».
Poco dopo il cimitero, inizia il campo profughi di Chatila: una strada centrale è percorsa da motorini e macchine che cercano di farsi largo tra la gente a piedi e, ai lati, all’ingresso delle numerose viuzze che entrano nel cuore del campo, ci sono bancarelle e negozietti di ogni genere. Proprio a una di queste entrate sono accolto da un membro della sicurezza di Fatah, un uomo sulla quarantina, dal viso pulito, che mi accompagna, tra un odore acre e fili della corrente aggrovigliati ovunque, dentro. La gente del posto mi guarda e alcuni mi seguiranno per tutta la permanenza. In alcune parti, all’interno campo, non riesce a filtrare neanche un po’ di luce e questo è dovuto, mi dice il membro della sicurezza, alla totale mancanza di pianificazione urbanistica che fa sviluppare le abitazioni in altezza: cumuli di cemento uno sopra l’altro che potrebbero crollare in qualsiasi momento.
Continuando a camminare tra slogan e manifesti che inneggiano a vecchie e nuove organizzazioni palestinesi, chiedo alla guida quali siano i maggiori problemi del campo. La risposta è secca: «Uno dei maggiori problemi è dovuto alla mancanza di risorse sanitarie e poi manca acqua ed elettricità». Tra le abitazioni diroccate e i bambini che giocano quasi coperti dall’immondizia, vedo un piccolo presidio medico e prima che gli domandi qualcosa, il membro di Fatah, mi dice che questa è l’unica risorsa per i circa 17 mila abitanti. Poco, troppo poco, penso immediatamente. Le patologie che vengono riscontrate più frequentemente sono la talassemia, i gravi disturbi intestinali causati dal consumo di acqua salata – all’interno dei campi, l’acqua contiene il 60% di sale – e le allergie causate dall’umidità provocata dal poco sole che arriva nel labirinto dei vicoli.
A Chatila, come in tutti campi profughi palestinesi del Libano – dodici regolarmente riconosciuti e venticinque insediamenti «illegali», 450 mila rifugiati in tutto – c’è il lavoro dell’«Unrwa», l’ente delle Nazioni Unite per i rifugiati, che fornisce, in parte, assistenza sanitaria di base e cerca di trovare risposte ai maggiori problemi come la povertà, l’affollamento e la disoccupazione. Purtroppo tutto questo non basta, il 60% dei profughi palestinesi vive sotto la soglia di povertà e il tasso di disoccupazione raggiunge il 42%.
Ad un certo punto, alzando gli occhi, vedo dei piccoli bambini che mi salutano da un terrazzo di un edificio: è la scuola elementare di Chatila. L’edificio è abbastanza alto e, come gli altri, dà la sensazione che possa cadere da un momento all’altro. Una struttura non solida come è l’istruzione per i rifugiati nel Paese dei Cedri. A Beirut esiste solo una scuola superiore per gli oltre 65mila palestinesi che ci vivono e l’abbandono scolastico è in continuo incremento. I dati stilati da un rapporto dell’«Unrwa» sono allarmanti: degli oltre mille studenti che ogni anno raggiungono la maturità, solo l’8% ottiene una borsa di studio che gli permette l’iscrizione in una delle università pubbliche aperte ai palestinesi.
Mentre saluto e ringrazio la guida e gli occhi delle altre persone che ci seguivano pian piano si tolgono da me, penso che c’è ancora molto da fare: per i bambini di Sabra e Chatila, per quelli sopravvissuti al massacro del 1982 e per i nuovi arrivati, c’è un futuro da costruire.
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