di Alessandro Campi
Oggi a Milano, nella sede della prefettura, il popolare Orban, primo ministro d’Ungheria, incontrerà il populista Salvini, nostro ministro degli interni, per quello che è stato presentato da buona parte della stampa come un summit anti-immigrati e, ancora peggio, come il preludio di un’alleanza politica che come obiettivo, nemmeno tanto occulto, avrebbe la distruzione dell’unità europea. Come ai vecchi tempi, per denunciare un tale pericolo si è deciso di organizzare un presidio democratico e antifascista al quale anche il Pd ha ufficialmente aderito.
di Alessandro Campi

Oggi a Milano, nella sede della prefettura, il popolare Orban, primo ministro d’Ungheria, incontrerà il populista Salvini, nostro ministro degli interni, per quello che è stato presentato da buona parte della stampa come un summit anti-immigrati e, ancora peggio, come il preludio di un’alleanza politica che come obiettivo, nemmeno tanto occulto, avrebbe la distruzione dell’unità europea. Come ai vecchi tempi, per denunciare un tale pericolo si è deciso di organizzare un presidio democratico e antifascista al quale anche il Pd ha ufficialmente aderito. Ciò che resta della sinistra, riformista o radicale poco importa quando si tratta di scendere in piazza per una nobile causa, riuscirà a far sentire la propria voce contro l’avanzata dell’onda nera sovranista?

Ironia a parte, la riunione odierna – che non si capisce per quale ragione debba essere considerata una provocazione politica e un affronto per Milano – merita in effetti di essere seguita con attenzione. Ma non perché ci sia da temere una saldatura nel segno della xenofobia e dell’antieuropeismo foriera di chissà quali disastri per la democrazia. Piuttosto per le contraddizioni e le diversità che potrebbero emergere dallo scambio di vedute tra due leader che hanno certamente diverse cose in comune, ma che è sbagliato considerare come appartenenti ad uno stesso campo ideologico e come mossi dalle medesime finalità.

Già sull’immigrazione e sulle politiche di accoglienza c’è da aspettarsi, al di là delle dichiarazioni di rito che saranno certamente accomodanti e convergenti, parecchie incomprensioni. Orban, come del resto gli altri Paesi che aderiscono al cosiddetto Patto di Visegrad, non ha mai accettato che i rifugiati e profughi arrivati in Europa vengano poi equamente ripartiti tra i diversi Stati membri. Riuscirà Salvini a fargli cambiare idea su un punto così decisivo? L’Italia è, per ragioni banalmente geografiche, un Paese di primo approdo: basta chiedere solidarietà, magari alzando la voce, per ottenerla? Il problema del sovranismo, preso troppo alla lettera, è che rischia di essere una forma di miopia politica: ognuno bada alla difesa del proprio interesse nazionale a scapito di qualunque forma di collaborazione, senza nemmeno rendersi conto che solo unendo le forze si può venire a capo di un problema complesso come è per esempio quello migratorio. Il che significa che l’ipocrisia o la debolezza imputata a Bruxelles spesso non è altro che la somma degli egoismi statali.

Anche sull’Europa e il suo futuro la convergenza tra i due esponenti politici rischia di non essere perfetta, anche se li accomuna una certa paranoia complottista (l’ossessione per Soros in quanto emblema della finanza apolide e della mondializzazione) e l’idea che le élite che attualmente governano l’Unione non perseguano l’interesse dei cittadini e siano mosse da uno spirito più tecnico-burocratico che politico.  Laddove sull’Europa (e sull’euro) Salvini si è espresso in modo spesso contradditorio e ambiguo, tanto da far sospettare che il suo vero scopo sia portare l’Italia fuori dall’Unione accentuando lo scontro con Bruxelles sino al punto di rottura, Orban è invece un europeista a suo modo convinto e sincero. Il suo obiettivo (ma lo stesso vale per gli altri aderenti al patto di Visegrad) più che disarticolare l’Unione è quello di riequilibrare a favore del blocco orientale i rapporti di forza che storicamente l’hanno governata (a partire dal duopolio franco-tedesco giudicato ormai anacronistico). Parlando lo scorso luglio ai giovani del suo partito, nel corso della tradizionale scuola estiva, Orban ha sollecitato la creazione di un esercito europeo e di una politica di difesa comune, sostenendo che non si può “andare avanti grazie al denaro americano e all’ombrello di sicurezza di Washington”. Al tempo stesso, ha posto il problema di un’Europa potenza tecnologica e commerciale in grado di competere alla pari con Cina e Stati Uniti (e di stabilire buone e autonome relazioni d’affari con la Russia).

C’è poi il problema della diversa collocazione politica dei due leader. Dare del fascista ai conservatori, spingere la destra verso l’estrema destra creando un amalgama ideologico, è in effetti un trucco propagandistico che la sinistra ha continuamente utilizzato per l’intero Novecento. Il problema è ricorrere ancora oggi a un simile espediente, puntando a creare un clima d’allarme e paura (lo spettro generico di un generico fascismo sempre in aguato) che è politicamente speculare a quello che si rimprovera ai propri avversari di alimentare (lo spettro dell’immigrazione selvaggia e dell’invasione dei clandestini). Orban è un nazional-conservatore, Salvini un populista radicale. La battaglia del primo, per quanto non priva di aspetti culturalmente ambigui, si gioca sulla contrapposizione tra democrazia liberale (agnostica) e democrazia cristiana (una formula non confessionale, ma che indica la difesa di una tradizione storica che enfatizza l’unità storico-culturale della nazione), tra la formula della ‘società aperta’ (priva di confini e di radici) e quella dello Stato-nazione (le cui fondamenta nel caso dell’Europa sono cristiane in senso antropologico-culturale). Questa posizione sembra un’eresia per le democrazie laico-secolari dell’occidente, ma è invece un tema molto sentito in tutte le democrazie orientali che hanno subito la lunga dominazione comunista-sovietica e che dopo la fine di quest’ultima proprio nel cristianesimo hanno trovato il loro collante identitario. La battaglia del secondo, come dimostra il suo stile spesso anti-convenzionale e poco rispettoso delle forme istituzionali, si gioca invece sulla contrapposizione strumentale tra popolo ed élite, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, tra cittadini e Stato. Ne discende anche un diverso modello comunicativo: basta contrapporre i lunghi discorsi e interventi pubblici tenuti da Orban, non privi di ambizioni dottrinarie, con i twett e i post di Salvini tutti giocati sul filo della propaganda e sulle emozioni più elementari.

Ma è forse sulla strategia politica che si colgono le differenze più profonde tra l’ungherese e l’italiano. Orban, da sempre in buoni rapporti con la Merkel, è un conservatore che sta scommettendo sulla metamorfosi culturale del popolarismo e sullo spostamento di quest’ultimo dal centro verso posizioni di destra tradizionalista. Qualcosa del genere è già accaduto in Austria con l’ascesa di Sebastian Kurz e in Spagna con l’arrivo di Pablo Casado alla guida dei rispettivi partiti popolari (ma anche il nuovo leader dei gollisti francesi, Laurent Wauquiez, è un nazional-conservatore che si è lasciato alle spalle le parole d’ordine del moderatismo liberale per enfatizzare invece i temi della sicurezza, dell’immigrazione, della difesa della famiglia, della giustizia sociale contro i guasti della globalizzazione ecc.). Salvini, come si evince dal suo rapporto sempre più conflittuale con Berlusconi, sembra piuttosto puntare sul collasso elettorale del moderatismo e sull’assorbimento del suo elettorato ad opera del fronte populista-radicale. Insomma, se Orban persegue l’alleanza tra destra tradizionale o conservatrice e destra estrema o populista con l’idea che debba però essere la prima la forza egemone (come appunto accade in Ungheria) il leader della Lega Nord sembra invece mosso dall’obiettivo esattamente contrario.

Tutto ciò ovviamente non vuole dire che tra queste diverse destre, troppo facilmente assimilate e confuse per ragioni strumentali e polemiche, non possano definirsi convergenze tattiche e accordi in vista delle elezioni europee del maggio 2019.  Ma in politica, come l’esperienza insegna, tanto facilmente si è amici e alleati quanto altrettanto facilmente ci si trova poi a competere e a dividersi.

*Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 28 agosto 2018.

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