di Manlio Lilli
Nell’Italia degli anni ’80, che registra il declino dei sindacati, la degenerazione della classe politica e l’aumento della spesa pubblica, ma anche la lotta dello Stato alla criminalità, gli episodi di grande rilievo si susseguono quasi senza sosta. I protagonisti della politica, quelli più grandi almeno, tentano di guidare il Paese, di indirizzarne le complesse strategie, in una fase nella quale il terrorismo costituisce un pericolo reale. Anche se, sfortunatamente, non il solo. In un contesto nel quale le spinte disgregatrici esercitano forse lo sforzo maggiore nel tentativo di avere la meglio, molti ricordano Sandro Pertini che scorta Enrico Berlinguer con l’aereo presidenziale per l’ultimo viaggio e il suo omaggio commosso e sincero a Piazza S. Giovanni. O quando nel 1988 visita il feretro del leader missino Giorgio Almirante ed é poi costretto a difendersi da un compagno socialista che gli contesta quel gesto. Immagini paradigmatiche del carattere di un uomo dai grandi ideali e di straordinaria umanità, un uomo che aveva lottato per la libertà. Cartoline del passato che stridono terribilmente con un presente di polemiche infinite alimentate da modesti politici di una piccola Italia.
Quei gesti erano per certi versi il suggello di un lungo percorso umano ancora prima che politico. Un percorso che aveva attraversato stagioni assai differenti del Paese. Dai drammatici anni della guerra, vissuta intensamente, senza calcoli, fino a quelli, difficili, ma belli, della Presidenza della Repubblica. Tra i due estremi la sua attività politica, sotto la bandiera socialista. Sempre, sia agli inizi quando era “il partigiano Sandro”, che negli anni da Presidente, una forza straordinaria. Diremmo ora, un naturale appeal, esercitato con consapevolezza, specialmente nei momenti di maggior difficoltà per il Paese. Un elemento questo che emerge con chiarezza leggendo la selezione dei suoi scritti e discorsi raccolti da Pietro Verri (Gli uomini per essere liberi, Add editore, pp. 224, euro 14,00). Di questa sua capacità di farsi interprete dei tempi, di riuscire nel mutare delle stagioni della storia a calarsi nelle nuove realtà, sono rintracciabili esempi concreti. Della sua predisposizione a vigilare sul presente, ad azionare i sensori sulla società civile, è molto più che semplice indizio il rapporto con i giovani. Un rapporto incardinato su un dialogo continuo, in particolare con i liceali e gli universitari, declinato quasi ininterrottamente nei suoi anni al Quirinale.
“Non faccio loro dei discorsi, intreccio con loro una conversazione, un dialogo, come fossimo antichi amici, e ci riesco sempre”, afferma Pertini nel discorso di fine anno, nel 1979. E l’anno precedente si era spinto anche oltre, dicendo che “i giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”. Parole che, al di là di tutto, ben spiegavano le ragioni del suo seguito presso i giovani.
Un legame questo rafforzato dai reiterati passaggi dedicati al tema in tanti discorsi ufficiali. Un tema che, in maniera non occasionale Pertini, collegava a quello dell’occupazione. “Il male tremendo” evocato con grande vigore nei discorsi di fine anno del 1981, 1983 e 1984, più flebilmente nel 1982. Ricordando in maniera esplicita come il compito di trovare soluzioni efficaci spettasse di dovere alla politica. Sia quella di governo che di opposizione. “Bisogna che il governo si adoperi per trovare sorgenti di lavoro, per fare in modo che tutti gli italiani abbiano una occupazione. Questo é quello che deve fare il governo, questo é quello che deve fare il parlamento”, dichiara nel discorso di fine anno, nel 1983.
La coerente storia personale, l’intransigenza, l’anticonformismo sono caratteri distintivi di una figura realmente carismatica che ha segnato fasi differenti della storia d’Italia. Promuovendo continuamente un’idea di uguaglianza, intesa come esito della lotta ai privilegi e alle consorterie.
Una lotta senza recinti, portata ovunque ne avvertisse la necessità. Anche all’interno dei palazzi del Potere, se il caso lo avesse richiesto. Come nel ’53, alla Camera, contro De Gasperi che vuole imporre un percorso d’urgenza per il varo di una legge elettorale subito ribattezzata “legge truffa”. Oppure come quella, del 1979, quando a proposito dei costi della politica, indirizza a Palazzo Chigi un’aspra obiezione all’aumento delle indennità per amministratori e consiglieri di Comuni e Province.
Verificare come molti dei temi, prioritari per il Pertini maturo, siano ancora di stringente attualità, dimostra come le politiche messe in campo almeno negli ultimi venticinque anni siano risultate inefficaci. Rileggere le sue parole, il suo approccio ai problemi, la conferma che é stata persa un’occasione. L’ennesima. Per provare a cambiare. Prima di Mani pulite, prima della fine della prima Repubblica. Ma anche prima della seconda Repubblica. Del suo trionfalistico inizio ed, ora, del suo, sommesso, epilogo.
Tra i testi contenuti nel libro spicca una lettera del 1957 ad Umberto Voltolina, giovane fratello della first lady Carla. Al cognato pieno di dubbi, di interrogativi irrisolti, Pertini con sofferenza è quasi costretto a confidare che “Siamo noi responsabili del vostro tormento, dello smarrimento in cui vi agitate”. Aggiungendo come “Noi vi abbiamo dato troppi esempi di tradimenti, intrighi, egoismo”, al punto da infettare la società di “malcostume, affarismo, corruzione”. Il presente del giovane Voltolina gli appariva più incerto di quanto non fosse stato il suo. Che aveva potuto contare su maestri, come Turati, Gramsci, Amendola, Gobetti.
Ieri come oggi siamo senza maestri. Ed abbiamo, colpevolmente, fatto cadere nel vuoto le parole di Pertini. Peccato!
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