di Alessandro Campi

imagesCAMIZTNEIn attesa di capire quando riprenderà e come finirà la trattativa tra il governo greco e i suoi creditori internazionali, sempre che non accada il peggio e si arrivi alla rottura definitiva, ci si continua ad interrogare sul significato reale del referendum svoltosi domenica scorsa e sugli effetti che, in virtù del suo risultato, esso è destinato a produrre ben al di là dei confini della Grecia. La consultazione ha coinvolto il popolo ellenico, ma ha indubbiamente avuto un rilievo internazionale, non foss’altro per il gran numero di attori politici – dai vertici istituzionali dell’Unione europea ai rappresentanti di singoli governi nazionali – che si sono espressi, in modo più o meno formale e diretto, a sostegno o a sfavore dei due schieramenti.

L’indizione del referendum e la successiva vittoria alle urne del “no” – vale a dire di coloro che erano contrari alla firma della proposta di accordo che era stata sottoposta al governo greco dalla cosiddetta “Troika” – è stata considerata da diversi osservatori una sorta di rivincita epocale della politica sulla finanza e sulla tecnocrazia. Si è scomodata l’eredità della Grecia antica, culla storica della democrazia, per inneggiare al trionfo della sovranità popolare contro un’Europa che, vittima delle oligarchie che la guidano, vorrebbe togliere ai cittadini la loro libertà di scelta. Ma questa posizione si è risolta, nella maggior parte dei casi, in uno sfoggio di retorica classicheggiante e nell’esaltazione di una idea della democrazia tanto appassionata quanto intrisa di demagogia e cattiva propaganda (la democrazia diretta degli antichi notoriamente non ha nulla a che vedere con la democrazia rappresentativa dei moderni e si fatica a capire quale rapporto simbolico di filiazione esista tra Pericle e Tsipras).

L’effetto interessante di questo referendum è stato in realtà un altro: non la riaffermazione della vera democrazia sulla scena politica del mondo, bensì l’aggrumarsi intorno al nome di Alexis Tsipras, in Grecia e all’estero, di un fronte politico-partitico largamente inedito, composto da forze all’apparenza assai eterogenee tra di loro, di destra e sinistra, ma accomunate a ben vedere da diversi elementi: una visione plebiscitaria e movimentista della politica, un latente nazionalismo economico, una manifesta avversione nei confronti dell’Europa (e in molti casi dell’euro), una spiccata preferenza per la democrazia diretta a scapito di quella mediata e parlamentare, un’insofferenza ideologica molto pronunciata nei confronti dell’economia di mercato e del capitalismo, un orientamento statalista in materia di economia, una tendenza a ricercare nemici assoluti contro i quali indirizzare i propri strali (con una preferenza per i banchieri e in generale i poteri forti) e dunque una certa inclinazione al complottismo politico. Si aggiunga a tutto ciò una sorta di odio-risentimento nei confronti del mondo occidentale al quale si appartiene che spinge la gran parte di costoro a manifestare pubblicamente grande simpatia per la Russia di Putin.

In Grecia il fronte del no comprendeva, come è noto, l’estrema sinistra di Syriza (il partito di Alexis Tsipras) come anche l’estrema destra di Alba Dorata. In Spagna il referendum era sostenuto da Podemos, mentre in Francia era visto con garnde favore dal Fronte nazionale. Ma è il caso dell’Italia quello forse più interessante. Dalla parte di Tsipras e del suo governo in lotta contro il Moloch europeo si sono schierati la Lega di Matteo Salvini e la nuova sinistra animata da Stefano Fassina, il movimento 5 stelle di Beppe Grillo e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, Nicki Vendola e Casa Pound, il leader dei no global Luca Casarini e l’ideologo del fascio-islamismo Pietrangelo Buttafuoco. Una compagnia decisamente eccentrica, se si guarda alle cose della politica secondo schemi e categorie convenzionali (la destra, la sinistra, il centro), che però potrebbe precludere, secondo alcuni, alla nascita su scala europea di nuove linee di distinzione e conflitto. Non siamo forse entrati nell’era post-ideologica nella quale ogni ricomposizione o aggregazione è possibile? L’Europa ha conosciuto a lungo l’opposizione tra conservatori e progressisti. Deve ora prepararsi a quella tra sistema e antisistema, tra europeisti e antieuropeisti, tra difensori della democrazia liberal-rappresentativa e rivoluzionari d’ogni colore, tra chi difende per i privilegi delle oligarchie e chi combatte in nome della libertà dei popoli?

Per indicare molti dei movimenti e partiti prima richiamati si ricorre di solito alla categoria di “populismo”. Quest’ultima è certamente una categoria vaga e spesso utilizzata in modo polemico e liquidatorio. Ma ha indubbiamente il vantaggio di tenere insieme, all’interno di un unico contenitore, forze e realtà che al dunque presentano più punti in comune che differenze. Tra i primi c’è indubbiamente la loro capacità a raccogliere consensi in modo trasversale facendo leva sugli umori profondi della società, agitando in modo opportunistico paure e inquietudini che hanno a che vedere sia col disagio economico sia con le tensioni sociali prodotte da fenomeni quali l’immigrazione. Nei territori dove la politica tradizionale spesso ha paura di spingersi, per timore di perdere la propria rispettabilità, i populisti trovano invece di che alimentare la loro propaganda.

In Europa queste forze sono molto cresciute nel corso degli ultimi anni, sino a radicarsi in modo stabile nel panorama politico dei diversi Paesi, ma non sono quasi mai riuscite ad esprimere altro che una forma di opposizione radicale alle istituzioni o una contestazione senza costrutto. In alcuni casi hanno conquistato responsabilità di governo a livello locale (ad esempio in Spagna e in Italia). Ma è la Grecia (insieme forse all’Ungheria dei nazionalisti di Orban) l’unico caso in cui un partito radicale di protesta è riuscito a vincere le elezioni nazionali, sfruttando a piene mani il malcontento popolare generato dalla crisi economica. Il che basta a spiegare perché Atene sia diventata, specie dopo la scelta referendaria di Tsipras e la sua crociata contro Bruxelles, una sorta di Mecca politica del populismo europeo d’ogni colore. Ma al di là dell’entusiasmo di queste ore, viene da chiedersi quanto questo governo riuscirà a fare per risolvere i drammatici problemi della Grecia. Sinora Tsipras ha giocato d’azzardo, sfruttando la forza paradossale che sempre hanno i debitori nei confronti dei creditori. Ma che quello greco, basato sull’alleanza in chiave antieuropea della sinistra radicale con un partito nazionalista di destra, possa essere un esperimento esportabile su scala europea o un esempio da additare è ancora tutto da dimostrare. Bastano il buon senso e l’esperienza a suggerirci il contrario. Certo, in tempi inquieti tutto può accadere, come dimostra la storia europea dei primi decenni del Novecento. Ma proprio quel drammatico frangente storico dovrebbe averci vaccinato nei confronti di formule politiche e miscele ideologiche che quando si sono realizzate hanno sempre prodotto esiti drammatici.

* Editoriale apparso su “Il Mattino” (Napoli) del 7 luglio 2015.

 

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