di Danilo Breschi
Tornare ad un libro e trovarci, oggi come ieri, risposte e nuovi interrogativi vuol dire tornare ad un classico. Così deve essere considerato Lo straniero di Albert Camus, annata 1942. Già lo stile di scrittura è sintomatico di un modo di sentire che Camus vuole trasmettere al lettore. Pagina dopo pagina siamo immersi in un’atmosfera atona, costretti a respirare il clima afoso di un’esistenza opprimente nella sua inutile ripetitività, priva di reali novità, di strappi emotivi, del tutto estranei al protagonista. Lo stile è telegrafico. Le frasi procedono a scatti, nervose, a tratti quasi nevrotiche. A ciò contribuisce l’assenza di congiunzioni che solitamente rendono più fluido il discorso e gradevole la lettura. Una lettura che qui risulta invece affannosa e provoca, con l’andare del tempo, un senso di estraniamento. Ma proprio per questo è efficace, penetrante.
Il protagonista, di nome Mersault, si trascina in un’esistenza che, vista dall’esterno, ci sconvolge in tutta la sua assurdità, la sua vacuità, la sua mancanza di passioni e ideali. Nessun sentimento forte lo scuote, lui così placidamente avvolto nella sua indifferenza, sordo ad ogni richiamo che può giungergli dal mondo esterno. Non si pone mai domande sul senso ultimo della sua permanenza in questo mondo. Il libro di Camus stupisce e, al tempo stesso, inquieta il lettore che rischia di trovarsi di fronte ad uno specchio, chiamato ad un esame di coscienza sul valore della propria vita, di ciò che ha fatto e sta facendo. La risposta può essere terrificante ed esiziale per il futuro.
Tutto pare senza spessore ed ogni cosa scorre come acqua sui vetri che non lascia traccia di sé dopo il primo raggio di sole. Così fino alla conclusione della prima parte, quando un evento traumatico irrora di sangue la vita di Mersault, che comincia così a pulsare con ritmo intenso e violento. O meglio, così sembra, perché l’apatia regna ancora beatamente sovrana. Torna più volte sulle labbra del protagonista, come un Leitmotiv dell’esistenza assurda, l’espressione “ma questo non significa nulla”.
Mersault è talmente candido e sincero nelle sue risposte che la coerenza rasenta il ridicolo. Reo confesso di omicidio, sottoposto ad interrogatori dalla polizia, egli non prova che noia. Non sembra nemmeno umano. Nel seguire il processo, il dibattimento fra accusa e difesa, il lettore ha l’impressione di aver di fronte non più un uomo, ma un attaccapanni per appendervi storie costruite o interpretate da altri. Quasi in conclusione l’esplosione, seppure momentanea, nelle parole dell’imputato, ormai condannato alla pena capitale: “Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta […]. Dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente”. Alla fine del confronto con il sacerdote, di cui rifiuta l’estremo conforto spirituale, Mersault emerge assumendo i tratti nobili dell’eroe, al di sopra della paura per eccellenza, la paura della morte. L’eroe assurdo, che si colloca niccianamente ad di là del bene e del male, fedele a quella terra che è già riscaldata a sufficienza dal sole e non ha bisogno di essere illuminata dalla fede in altri mondi, in altre vite. La vita è questa: in un momento la condanna diventa vittoria, la certezza della morte imminente fa sì che l’uomo aderisca in modo totale alla vita, divenuta finalmente tangibile, una cosa con la quale ingaggiare un corpo a corpo, per una fusione, mai perfetta, tra uomo e mondo. Ora sorge l’uomo assoluto, che vive senza speranza, ma che vive pienamente proprio perché senza più speranza e proiezione nel futuro. La rabbia accumulata nel dialogo con il prete innesca un cambiamento. “Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo”. Mersault sembra trovare infine nell’odio degli altri quella consistenza di sé sfuggita di mano e di mente: “perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”. Il condannato ha riscoperto l’azione, l’ostinazione a muoversi nell’inferno del presente, e con esse ha ritrovato la libertà. Vi ricordate Le Feu follet? Ecco, l’opposto.
Fuoco fatuo (1931) è il titolo di un romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, in cui si descrive con impietosa precisione la notte di chi soffre della distanza tra sé e tutto il resto, distanza che non riesce a colmare. E così Alain, il protagonista, viene congedato dall’autore con la seguente raffica di frasi telegrafiche: “il petto in fuori, nudo, ben esposto. Il cuore, si sa dov’è. Una pistola, è solida, è d’acciaio. È una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose”. E queste sono le ultime parole prima di un suicidio. Mersault accetta invece la morte, quasi la invoca, con un atto che è di sfida, la stessa che proponeva negli stessi anni l’altro dioscuro dell’esistenzialismo francese, gemello diverso e poi sempre più avverso a Camus, ossia Jean-Paul Sartre. Questi scrisse sul tema dopo Drieu e prima di Camus. La nausea (1938) parla dell’alienazione di un intellettuale sradicato, colto d’improvviso da una “malattia” che “una volta installata non s’è più mossa, è rimasta cheta, ed io ho potuto persuadermi che non avevo nulla, ch’era un falso allarme”. Cosa succede ad Antonin Roquentin, il protagonista ammalato di melancholia (era questo l’originario titolo scelto da Sartre, poi modificato da Gallimard che suggerì La nausea)?
Quelle cose con cui il protagonista di Fuoco fatuo vorrebbe scontrarsi prendono questo tipo di richiesta troppo sul serio. E così si animano e quasi si scaraventano contro Roquentin. Questi confessa in cosa consista la sua malattia: “gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, e niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paure di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra”.
Alla fine, comunque, l’esito è analogo: tra me e le cose si crea un divario, si sconta una separazione che ti aliena. Come a dire che è nel rapporto tra io e la mia circostanza, per usare le parole di Ortega y Gasset (Meditazioni sul Chisciotte, 1914), nella loro compresenza e concatenazione, che si produce l’esistenza disalienata, dunque quell’amour de soi che ti consente di vivere pienamente, nel mondo e per il mondo. La “circostanza” orteghiana comprende infatti il luogo, il tempo, la società.
Potremmo navigare ancora a lungo tra le notti dell’esistenzialismo transalpino maturato e maceratosi tra le due guerre mondiali, ma terminiamo qui con l’approdo che offre proprio lo spagnolo Ortega, coevo ai tre francesi, pur se di una generazione, o quasi, più anziano. E con lui ripeto una formula che è soluzione (parziale?) al dilemma esistenziale di chi ha la sventura di percepire l’assurdo, e magari farsene pure assorbire: “il senso della vita consiste nell’accettare ciascuno la propria inesorabile circostanza e, nell’accettarla, convertirla nella propria vocazione”. Se leggiamo bene, è forse quello che lo stesso Roquentin infine intuisce, regalandoci uno spiraglio che Alain non aveva trovato. Mersault, dal canto suo, potrebbe indurre a credere che il suo sia un atteggiamento fin troppo mimetico rispetto al flusso vitale, incessante e imperturbabile, perché extra-umano o a-umano. Ossia, indifferente all’umana condizione.
Quel che Camus non rende fino in fondo chiaro nel breve romanzo Lo straniero si riesce forse a comprendere pienamente nella conclusione del suo “saggio sull’assurdo”, sottotitolo de Il mito di Sisifo, pubblicato anch’esso nel 1942. Scrive Camus: “Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”. Una protesta, una ribellione, che tramuta il destino in una scelta. La scelta come un rispondere alla chiamata, quella inevitabile, identica per tutti. Una risposta all’altezza del vertice della chiamata. Un’operazione alchemica, che per alcuni potrà sembrare truffaldina, per altri semplicemente “umana, troppo umana”, ossia fin troppo devota al limite nostro, costitutivo, di umani appunto. Un’operazione antica, la stessa messa tanti secoli fa in scena dalla tragedia greca. E ancor più dallo stoicismo, cui l’etica di Camus deve non poco.
Amor fati, in alto i cuori perché si riempiano, purché si riempiano, e così sia. Se fatico a sentire la mia circostanza, devo intensificare la percezione del mio pulsare, del mio compulsarmi, con tale e tanta forza da riattivare le connessioni con il mondo e la natura intesi come cosmos. La vocazione individuale, singolare, di Ortega, diventa collettiva, di specie (la specie umana), in Camus, il quale, non a caso, riteneva l’autore delle Meditazioni sul Chisciotte come il più grande scrittore del suo tempo. Entrambi propongono l’ostinazione come antidoto alla perdita del senso. Ci suggeriscono: continua a camminare nonostante l’orizzonte ti sia negato, o così offuscato che ogni certezza vacilla e cade. Non si tratta di sperare, anzi. Volere trasformare il mondo è peggio che saperlo fronteggiare per quello che è. Non c’è altra realtà oltre a quella vissuta qui e ora. Se possiamo viverla meglio, dipende da noi stessi. In fondo, anche Sartre è sulla stessa lunghezza d’onda quando dichiara che “l’uomo è condannato ad essere libero” (L’essere e il nulla, 1943) perché “ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere” (L’esistenzialismo è un umanismo, 1946).
È la filosofia del “ciò nondimeno”, del “nonostante tutto, io proseguo”, perché tutti voi, tutti noi, proseguiamo nonostante tutto il resto, e tutti gli altri. C’è molto della tradizione romantica, specialmente delle sue espressioni più tarde. Non so se e quanto sia una filosofia sufficiente e adeguata a rispondere al nichilismo. Di sicuro, si presenta bene. Ha stile. E soprattutto pretende molto. Ai lettori dice: vi riguarda, siete tutti coinvolti, per sempre coinvolti. Perché nessuno è assolto dalla condanna del vivere.
Se il mondo ti si presenta come un estraneo, fatti coraggio: carica le spalle, solleva e sorreggi il macigno, oppure salta in sella al tuo Ronzinante e scàgliati contro i mulini a vento. Se il mondo pare un estraneo, è solo perché non hai capìto il tuo destino, che è poi il nostro, di tutti noi. Non è il mondo ad essere sbagliato, fuori asse, siamo solo noi a non essere in sintonia con esso. Se la volontà va ancora usata, è solo per aderire al divenire. Sposare quell’“innocenza del divenire” di cui avrebbe parlato quello stoico atipico, di fine Ottocento, che fu Nietzsche. Uno stoicismo recuperato in tempi nei quali ogni senso di cosmos risulta perduto o frantumato. Se il mondo ti sembra estraneo, questa è la via: a te la scelta tra Sisifo o Don Chisciotte.
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