di Corrado Ocone

Qualche anno fa, sotto la presidenza Bush, si cominciò da parte di alcuni teorici conservatori americani a giustificare la guerra in Iraq, e altre eventuali e successive, con la dottrina della “democrazia esportata”. Il ragionamento era più o meno questo: molti Stati sono in mano a tiranni che, pur di conservare il loro potere, non esitano a usare, all’interno e all’esterno, armi di distruzione di massa; scalzati questi tiranni ed instaurati dei regimi democratici, le eventuali controversie saranno risolte pacificamente nei consessi internazionali. Come sia andata a finire, è presto detto: basta gettare uno sguardo alle macerie, direi fisiche e morali, e al caos che è proprio oggi di quell’area geopolitica che chiamiamo Medio Oriente (e che in verità si estende anche all’Africa settentrionale). A un certo punto, gli occidentali sono stati visti come invasori, imperialisti, non come portatori di pace e democrazia. E una volta ancora la storia, che non si stanca mai di ripetersi, ci ha ribadito una “verità” che è inutile, anzi dannoso, esorcizzare: la democrazia, come ogni altro ideale etico-politico, nasce per un processo di maturazione interna dei popoli, quindi dal basso. L’azione politica, per favorirla, non può disegnare sulla carta uno “stato di cose ideale”, considerarlo valido sempre e comunque, in ogni periodo e per chiunque, e ripromettersi di realizzarlo per imposizione, dall’alto. Se così fa, il rischio è di generare più danni di quanti ce ne fossero nella vecchia situazione. La “via dell’inferno è costellata di buone intenzioni”, come dice il proverbio. E come, giusto per fare un altro esempio storico, sperimentarono sulla loro pelle i patrioti napoletani che nel 1799 pensarono di prendere il potere imponendo la Costituzione francese all’ignorante plebe locale. Lo facevano certo con animo puro, e certamente per il bene di quella stessa plebe che non aveva gli strumenti per comprenderlo. Ma fatto sta che il popolino si ribellò e, alleatosi con i sanfedisti del Cardinal Ruffo, mandò quei patrioti a morte nella lugubre piazza del Mercato.

Ecco, il realismo politico è proprio quel metodo di comprensione dei fatti storici e politici che si attiene rigorosamente, come diceva Machiavelli, alla “realtà effettuale” delle cose, non perdendosi dietro sogni o chimere. Un metodo che non solo fa capire la realtà, ma ci fa agire in modo adeguato rispetto ad essa (almeno nella misura in cui è umanamente possibile): commisurando, come si dice, i fini ai mezzi realmente disponibili, cioè al gioco delle forze vitali in campo entro cui dobbiamo di necessità inserire la nostra azione se vogliamo che sia efficace. Se non seguiamo questa via davvero maestra, il rischio è non solo di essere improduttivi, ma anche di creare danni e tragedie.

Ora, tutto questo non è affatto pacifico, se è vero come è vero che, nella storia dell’umanità e del pensiero, la concezione realistica della politica si è sempre scontrata con una tradizione opposta, tesa ad eticizzare la vita politica e sociale senza venire a compromessi con il mondo così come è e con quel “legno storto” di cui è fatta l’umanità. Una concezione che fra l’altro sembra ritornare in auge nel nostro mondo pieno di “indignati” e “moralisti”, spesso a buon mercato, che accusano di cinismo i fautori del realismo politico. Trattandosi di una semplificazione non rispondente al vero, bene hanno fatto l’Istituto di Politica e la “Rivista di politica” ad organizzare a Perugia, con la collaborazione dell’editore Rubbettino, un imponente convegno dal titolo: Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerche. Il seminario, che è durato tre giorni (17-19 novembre), ha visto alternarsi sul tavolo dei relatori una cinquantina di studiosi (nella foto alcuni dei partecpanti) che hanno affrontato il tema da ogni angolo visuale. Nonché in un ampio spettro storico, da Tucidide al governo dei tecnici di oggi per intenderci (come si può vedere leggendo il programma dell’incontro, i cui Atti saranno disponibili nella primavera-estate del 2014).

La domanda che, come suol dirsi, sorge spontanea, e che sicuramente emergerà nell’incontro perugino, è questa: se la storia ha dato molteplici conferme del realismo politico, perché i moralisti continuano ad avere così grosso peso e influenza? Ora, è un dato di fatto che le persone semplici siano idealiste. Questo dopo tutto è una fortuna: senza le passioni positive e la solidarietà le società sarebbero condannate a sicura morte. Senza considerare che il buonismo è rassicurante, fa sentire bene con se stessi e con il prossimo, e che perciò in molti esorcizzano, ingannando se stessi, la parte che ogni uomo ha tendente al mero utile, all’ “amor proprio”. Ma il discorso è un altro: anche molti che hanno gli strumenti intellettuali per capire i limiti della concezione astratta della politica continuano a perorarla in modo imperterrito. Perché una larga fetta della classe dirigente predica le buone intenzioni indipendentemente da ogni etica della responsabilità? Sono da considerarsi tutti “anime belle”, come le chiamava Hegel, cioè “profeti disarmati” come i giovani patrioti napoletani? Se fosse così, tutto sarebbe semplice. Ma la verità è che in molti predicano il moralismo per fini di potere, per suggestionare ad esempio le masse e averle dalla propria parte. E’ una forma di realismo anche questa, ma manca del tutto della tensione morale che è propria di chi, pur usando il metodo realistico, ha in mente dei fini morali. E’ cinismo piuttosto che realismo. E segna l’eterna dialettica, di cui parlava Francesco De Sanctis, fra “l’ “uomo del Guicciardini” e “l’ uomo del Machiavelli”. Il primo tutto chiuso in se stesso, proteso alla realizzazione del proprio “particulare”; l’altro, impegnato a realizzare fini nobili, ma consapevole della complessità dell’essere umano, cioè del rapporto inscindibile in esso presente fra passioni negative e positive.

Per il vero realista politico può dirsi in definitiva che l’ideale di uomo, soprattutto di colui che è impegnato nelle attività pratiche e politiche, sia ancora oggi quello che gli antichi romani definivano vir bonus agendi peritus. E che il Vangelo, l’altra fonte della nostra civiltà, indica con l’espressione: “candido come la colomba e astuto come il serpente”.

 

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