di Damiano Palano
È piuttosto sorprendente che il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, pp. 172, euro 15.00), sia passato quasi inosservato persino fra i più attenti politologi del nostro paese, e che così siano del tutto sfuggite le provocazioni che il testo muove ad alcuni luoghi comuni consolidati. Il volume di Diodato affronta in effetti una serie di questioni decisive per comprendere la situazione in cui versa oggi la penisola, ma in particolare – e qui sta in gran parte l’originalità del libro – tenta di mostrare come la ‘de-democratizzazione’ del sistema politico italiano non sia l’effetto né del «berlusconismo» e neppure del controllo esercitato sul Belpaese dalla «tecnocrazia» di Bruxelles (o da un’Unione Europea nelle mani della Germania). La tesi centrale di Diodato – una tesi meritevole di una discussione ben più approfondita di quella che le può essere riservata in questa sede – è infatti che una parte della classe dirigente italiana abbia più o meno consapevolmente individuato nell’introduzione di un «vincolo esterno», rappresentato dall’Ue disegnata a Maastricht, lo strumento con cui ‘disciplinare’ e ‘frenare’ l’ostilità ai principi dell’economia di mercato diffuse nella società italiana (oltre che nella stessa classe politica) e dunque per adeguare il paese alle esigenze dell’economia globale. E ciò cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, e soprattutto dal 2011 a oggi, non sarebbe dunque niente altro che il mesto epilogo di una vicenda cominciata ormai più di vent’anni fa.
Fra le molte interessanti osservazioni che si possono rinvenire nelle pagine di Diodato (nella foto in basso), al lettore più smaliziato non può però certo sfuggire una piccola – ma tutt’altro che marginale – annotazione polemica. Ad un certo punto, con l’obiettivo di comprendere come possa essere misurato oggi il potere di uno Stato, Diodato si confronta infatti con la necessità di definire la politica, e in particolare con la difficoltà di cogliere quale sia la relazione tra la «visibilità» della politica e la sua «ubiquità». Ed è proprio in corrispondenza di un simile snodo argomentativo che il politologo formula un interrogativo provocatorio, che chiama in causa la scienza politica dell’ultimo trentennio. Scrive infatti Diodato: «Come sciogliere questo nodo ontologico, vale a dire la divergenza fra autonomia e ubiquità della politica, senza approfondire il tema della vera natura del potere? La domanda non è pleonastica. Piaccia o meno, occorre ammettere che la scienza politica italiana, affermatasi nel corso della seconda metà del Novecento, ha rinunciato a indagare il tema della vera natura del potere. Dando ragione, sul punto, tanto a Sartori quanto a Bobbio. Chi ha cercato una risposta a questo nodo ontologico ha quindi seguito percorsi paralleli, riferendosi, almeno nei casi più rilevanti in Italia, al giurista tedesco Carl Schmitt (penso soprattutto alla riflessione di Gianfranco Miglio, Carlo Galli e Massimo Cacciari)» (p. 31).
La provocazione di Diodato si inquadra all’interno di una riflessione che punta a recuperare alcune delle intuizioni del pensiero geopolitico novecentesco, e che dunque si propone di considerare anche aspetti spesso trascurati (per non dire completamente dimenticati) dalla politologia più recente e dalle stesse Relazioni Internazionali (per ricostruire le tappe della riflessione compiuta in questa direzione dall’autore, si vedano per esempio alcuni suoi recenti lavori, come Il paradigma geopolitico. Le relazioni internazionali nell’età globale, Meltemi, Roma, 2010, e Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma, 2011, oltre che il volume curato dallo stesso Diodato, Relazioni internazionali. Dalle tradizioni alle sfide, Carocci, Roma, 2013). Anche nel Vincolo esterno, con riferimento alla politica estera italiana, Diodato intende così di articolare una visione multidimensionale del potere, capace di tenere conto tanto di componenti interne alla sfera statale, quanto di aspetti che invece riguardano la collocazione dello Stato nello spazio politico globale. La provocazione indirizzata alla scienza politica consente però di allargare lo sguardo ben oltre il quadro verso cui si dirigono le energie di Diodato. Perché in effetti, per quanto possa apparire ad alcuni forse ingeneroso, quello spunto polemico coglie davvero un nervo scoperto nella riflessione politologica italiana.
Naturalmente il bersaglio cui si rivolge l’appunto di Diodato va individuato con precisione, per evitare fraintendimenti, nel senso che deve essere chiaro che lo studioso si riferisce in modo specifico alla «scienza politica italiana, affermatasi nel corso della seconda metà del Novecento». Come scriveva molti anni fa Norberto Bobbio, l’espressione «scienza politica» può essere d’altronde intesa in due sensi diversi. In un’accezione più ampia, viene a denotare qualsiasi analisi del fenomeno politico, «condotta con una certa sistematicità, appoggiata sull’esame di fatti, esposta con argomenti razionali»: in questo primo significato il riferimento alla ‘scienza’ allude dunque a un sapere differente rispetto a quello della semplice ‘opinione’, un sapere che si pone come obiettivo «non abbandonarsi alla credenza del volgo, non trinciare giudizi in base a dati non accertati, rimettersi alla prova dei fatti» (N. Bobbio, Scienza politica, in Scienze politiche 1. Stato e politica, a cura di A. Negri, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 432). Se si definisce la scienza politica in questo modo, evidentemente molti grandi classici del pensiero politico possono essere considerati come scienziati politici, e fra questi naturalmente proprio quel Machiavelli che Diodato cita spesso nel suo volume, e cui certo non si può rimproverare di non aver indagato cosa sia il potere e quali siano le condizioni per conquistarlo, accrescerlo, conservarlo. Ma accanto a tale prima accezione, se ne trova una seconda, più tecnica: un’accezione che sta a indicare «un orientamento di studi che si propone di applicare all’analisi del fenomeno politico nei limiti del possibile, cioè nella misura in cui la materia lo permette, ma con sempre maggior rigore, la metodologia delle scienze empiriche (così com’è stata elaborata e in parte codificata dalla filosofia neopositivistica)» (ibidem). Ed è ovviamente proprio a questa specifica visione della scienza politica che Diodato allude nella sua annotazione polemica. In sostanza, la scienza politica cui Diodato rimprovera di aver rinunciato a indagare il potere (e forse di averlo addirittura dimenticato) è proprio quella disciplina che, nel corso dell’ultimo mezzo, ha definito la propria identità professionale a partire dai presupposti del neopositivismo, o quantomeno a partire a quella versione del ‘neopositivismo politologico’ che Giovanni Sartori fornì in alcuni dei suoi scritti più importanti degli anni Cinquanta e Sessanta.
Il limite che Diodato segnala non riguarda naturalmente solo la scienza politica italiana, perché per molti versi il potere cessa di essere uno degli oggetti privilegiati della ricerca politologica già attorno agli anni Settanta anche negli Stati Uniti, quando il dibattito fra pluralisti, neo-elitisti e anti-elitisti tende ad arenarsi su una serie di banchi di sabbia. Da allora incomincia peraltro anche quella frammentazione della disciplina in campi di specializzazione fra loro sempre più autonomi che rende talvolta difficile parlare della scienza politica come di una disciplina effettivamente unitaria. Ma quella sostanziale ‘rimozione’ del potere dall’agenda di ricerca teorica ed empirica non può non stupire nel caso della scienza politica italiana. Perché la ricerca sul potere – non solo la ricerca su ‘chi’ detenga il potere, ma anche l’indagine su ‘cosa’ sia il potere – caratterizza in Italia, forse più che in ogni altro paese, la riflessione politica.
Senza scomodare i classici del pensiero italiano, è infatti sufficiente pensare alla storia della scienza politica del Novecento. Per quanto la riflessione di Gaetano Mosca e il suo tentativo di fondare una «scienza politica» possano essere considerati oggi solo come una pallida anticipazione della ‘vera’ disciplina, è infatti evidente come il pensatore siciliano avesse collocato alla base dell’edificio della sua teoria della classe politica proprio quella grande, eterna domanda sulla natura del potere, cui ovviamente forniva una risposta ben precisa. E un interrogativo simile avrebbero ripreso non solo i grandi alfieri del cosiddetto «elitismo italiano», ma anche tutti i principali cultori della scienza politica italiana fino agli anni Settanta del Novecento: studiosi che – pur coltivando l’ambizione di raggiungere una conoscenza scientifica della politica – non rinunciavano a tentare di comprendere cosa fosse il potere e quali fossero le grandi «regolarità» della politica. E con qualche forzatura (ma senza eccessive difficoltà), si potrebbe annoverare fra i principali cultori di questa ‘via italiana’ alla scienza politica persino il nome di Antonio Gramsci, la cui riflessione sull’«egemonia» costituisce ancora oggi una fonte cui molti politologi (in special modo internazionalisti) continuano ad attingere. Ma, per rimanere entro il perimetro della ricerca accademica, è quasi scontato pensare, per esempio, a Bruno Leoni, a Giuseppe Maranini e a Gianfranco Miglio, esponenti proprio di quella stessa generazione che – a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta – difese la legittimità della scienza politica: sebbene quegli studiosi non condividessero affatto la medesima visione della scienza politica (e basti pensare in questo senso alla distanza che separava Leoni da Miglio), ognuno di loro individuava però l’oggetto specifico della disciplina nello studio del potere politico, ossia nelle modalità della sua produzione e della sua distribuzione. E proprio per questo, più che imboccare il sentiero di una ricerca puramente empirica, dovevano porsi domande che non potevano non essere affrontate innanzitutto sul terreno della teoria politica. Un terreno in cui diventava inevitabile confrontarsi con i classici, ma in cui comunque non veniva mai smarrito l’obiettivo cruciale della comprensione dei processi politici ‘reali’.
Non si può certo dire che nell’ultimo quarantennio la scienza politica italiana non abbia conosciuto un’enorme sviluppo e un significativo consolidamento nella comunità accademica italiana. A partire dai primi anni Settanta, quando iniziò a prendere forma l’associazione professionale che raccoglie i cultori della disciplina, il numero degli scienziati politici incardinati nell’accademia italiano si è infatti notevolmente accresciuto. E inoltre, sebbene l’immagine pubblica della scienza politica sia tutt’altro che chiaramente definita, nessuno – quantomeno sul piano del dibattito intellettuale – mette più in discussione la legittimità dell’indagine politologica. Ciò nondimeno, è evidente a chiunque come la condizione per un simile successo sia stata anche la rottura netta il passato, e dunque con quegli stessi ‘precursori’ che – da Mosca a Miglio, passando per Gramsci – avevano a loro modo cercato di battere la strada della ‘via italiana’ alla scienza politica.
Naturalmente ciò non significa che siano state del tutto recisi i legami col passato. Molto più di quanto faccia qualsiasi altra disciplina, non solo in Italia, la scienza politica ha anzi costruito una sorta di mito di fondazione, in cui il ruolo di patriarca viene assegnato a Giovanni Sartori. E chiunque abbia assistito a qualche convegno della Società Italiana di Scienza Politica (Sisp) non ha difficoltà a comprendere l’importanza che, nella costruzione dell’identità disciplinare, è venuto a giocare (sempre più spiccatamente negli ultimi anni) una sorta di suggestivo racconto delle origini. Un racconto in cui Sartori, novello Mosè, dopo aver ricevuto una chiamata in giovanissima età agli studi politologici, viene rappresentato come il profeta capace di fronteggiare i nemici provenienti da ogni direzione e di guidare il proprio popolo in una lunga traversata del deserto, destinata a concludersi con l’approdo alla Terra promessa, coincidente più o meno con la fondazione della «Rivista Italiana di Scienza Politica».
Naturalmente sarebbe piuttosto facile smontare questa ricostruzione e dunque osservare con uno sguardo un po’ più critico le dinamiche con cui si affermò in Italia la legittimità della scienza politica (chi scrive ha cercato di contribuire a questa riflessione in un libro di qualche anno fa: Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2005). Ma si tratterebbe probabilmente di un’operazione ormai tardiva. Perché, a ben vedere, quel grande mito delle origini – puntualmente rievocato in rituali talvolta persino caricaturali – ha ormai ben poco a che vedere con ciò che è diventata oggi la scienza politica italiana. In effetti non è difficile riconoscere che – procedendo ben oltre le posizioni ‘neopositiviste’ di Sartori e persino di molti dei suoi allievi più coriacei – la scienza politica italiana ha completamente espulso dai propri confini proprio la dimensione teorica della ricerca sulla politica.
Ancora un quarto di secolo fa, in un rapporto steso per la Fondazione Agnelli sullo stato della ricerca politologica in Italia, non mancava un lungo capitolo dedicato a Teoria e macropolitica, al termine del quale Leonardo Morlino, interrogandosi sul futuro della teoria, osservava: «proprio l’accumularsi di studi e ricerche e la necessità di nuove ricerche rendono a loro volta indispensabili dei momenti di sintesi e di riflessione. E se, probabilmente, una teoria generale non è più possibile e neppure auspicabile, tuttavia fino a che avrà senso giungere a visioni più sintetiche anche la macropolitica – sub specie, soprattutto, di teorie a medio raggio – continuerà ad essere indispensabile» (L. Morlino, Teoria e macropolitica, in Id., a cura di, Scienza politica, Fondazione Agnelli, Torino, 1989, p. 84). Oggi gli auspici di Morlino sembra invece siano andati del tutto delusi. E da questo punto di vista è sufficiente dare un’occhiata alla mappa dell’odierna ricerca politologica italiana proposta nel recente volume Quarant’anni di scienza politica: tra i principali settori di ricerca indicati dai soci della Sisp, la teoria politica non pare infatti essere rilevante per quasi nessuno dei rispondenti (2 risposte su 362, pari allo 0,5%) (cfr. Quarant’anni di scienza politica, a cura di G. Pasquino – M. Regalia – M. Valbruzzi, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 13).
È persino scontato che molti politologi debbano considerare con sollievo l’espulsione della teoria politica dal perimetro della disciplina, quantomeno perché in questo modo possono ritenere raggiunto l’obiettivo di ‘depurare’ l’analisi empirica da incrostazioni valoriali, da infiltrazioni ideologiche, da inquinamenti ‘filosofici’. Discutere oggi l’ingenuità di questa posizione – davvero attardata su una caricatura del ‘neopositivismo’ – sarebbe persino inutile, se una simile visione, spesso sostenuta da un’animosità degna di miglior causa, non producesse però esiti disastrosi, che riguardano, innanzitutto, la stessa capacità di comprendere i processi politici in atto e le trasformazioni nelle relazioni di potere. Probabilmente, come suggerisce in parte Diodato nel suo volume, chiunque intenda capire davvero cosa sta accadendo in questi anni – in Italia, in Europa e nel mondo – dovrà infatti mettere da parte molti degli arnesi che la scienza politica degli ultimi trent’anni ha costruito, per studiare cose spesso sostanzialmente irrilevanti o scontate (talvolta solo per dimostrare la capacità di utilizzare correttamente gli strumenti di ricerca). E per questo si troverà anche a difendere la legittimità della teoria politica, e a ricollocare al centro della discussione quella vecchia domanda su «cos’è il potere?» di cui Diodato biasima l’assenza nel dibattito odierno.
Ma un aspetto forse non del tutto irrilevante di questa battaglia culturale passerà forse anche dalla comprensione dei motivi che hanno condotto la scienza politica a tagliare completamente quelle radici che affondavano nella grande teoria politica italiana (oltre che con nella stessa identità culturale italiana). Certo in questo percorso l’impronta ‘neopositivista’ ha avuto – e continua ad avere – un peso notevole, così come un’incidenza ha avuto anche la crescente internazionalizzazione della disciplina, con la conseguente spinta a uniformarsi agli indirizzi adottati all’estero. Ma è probabile che una spiegazione non possa essere trovata esclusivamente in questi fattori. Non è da escludere infatti che a spingere i politologi italiani a tagliare definitivamente i ponti con il passato e a ‘liberarsi’ della teoria politica, ormai percepita solo come una zavorra, sia stata anche, in una certa misura, quell’impronta ideologica che segnò in Italia la rinascita della scienza politica.
Nella battaglia per la conquista di una legittimità, Sartori ebbe la necessità di delimitare chiaramente lo spazio della nuova disciplina, rispetto a quello di altri campi di studio ben più consolidati, come in particolare quelli delle scienze giuridiche, delle scienze storiche e della filosofia (oltre che quello della sociologia). Ma la difesa della legittimità della scienza politica – quantomeno nella versione che ne svolgeva Sartori – si proponeva anche come una battaglia contro le principali culture politiche italiane e contro la visione della politica riconducibile ai due principali partiti italiani, il Partito comunista e la Democrazia cristiana. E, non casualmente, Gianfranco Pasquino torna proprio su questo aspetto, nel momento in cui ricostruisce le tappe della difficile affermazione della disciplina e in cui rievoca i principali avversari contro cui Sartori dovette compiere la propria campagna: «Il primo bersaglio, quello politicamente più grosso, era costituito dalla cultura politica, in senso lato, predominante in Italia, nelle sue due versioni più diffuse: la blanda ideologia del cattolicesimo (più o meno) democratico presente, ma non egemonico, nella Democrazia cristiana, e il marxismo del Partito comunista, prevalentemente declinato secondo moduli variamente gramsciani e/o storicisti. L’elemento comune ad entrambe le ideologie, a prescindere dalle loro pratiche concrete, era rappresentato dal non riconoscimento dell’autonomia della politica, e, tantomeno, dalla specificità del suo studio» (G. Pasquino, Bilancio della scienza politica italiana tra professione e vocazione, in Quarant’anni di scienza politica, cit., p. 238). Naturalmente si potrebbe discutere della effettiva negazione dell’autonomia della politica da parte dei filoni delineati un po’ impressionisticamente da Pasquino. Quel che è certo è che la difesa dell’autonomia della politica – e dunque della legittimità della scienza politica – da parte di Sartori si sposò fin dall’inizio con l’adozione di una ben precisa visione della politica, una visione riconducibile alla rispettabile tradizione del liberalismo conservatore. Ogni lettore di Sartori sa d’altronde molto bene quanto peso abbia nella riflessione dello studioso fiorentino questa visione della politica, e come per questo sia spesso molto difficile distinguere nettamente le sue argomentazioni ‘scientifiche’ dalle sue convinzioni ‘ideologiche’. Tanto che, a ben guardare, il tanto celebrato Democrazie e definizioni può essere considerato – senza alcuna forzatura – anche come un feroce pamphlet anticomunista e antimarxista, oltre che come la ‘pietra di fondazione’ della riflessione politologica italiana sui caratteri distintivi di un regime democratico. Proprio quell’impostazione ideologica (un’impostazione ideologica in verità quasi mai esplicitata, ma che davvero trasuda da ogni pagina di Sartori e da molti degli articoli quantomeno dei primi dieci anni della «Risp») giocò in molti sensi nella definizione dei contorni della disciplina. Una implicazione dell’adozione di quella prospettiva fu che la scienza politica assunse – quasi necessariamente – un ruolo critico nei confronti del quadro politico della «Prima Repubblica». Ma questa condizione venne del tutto meno nel quadro politico che si formò a partire dai primi anni Novanta, con la nascita della «Seconda Repubblica».
Sebbene sia certo difficile individuare delle responsabilità dirette dei politologi – quantomeno dei politologi in quanto gruppo professionale – nell’avvio della transizione, è invece assai più semplice riconoscere come molte delle parole d’ordine brandite dagli scienziati politici italiani per biasimare la classe politica della «Prima Repubblica» diventassero, al principio degli anni Novanta del secolo scorso, una sorta di patrimonio comune: la convinzione che tutti i problemi italiani derivassero dall’assenza di alternanza al governo, dall’occupazione del centro, dalla presenza di un forte partito anti-sistema e dalla conseguente irresponsabilità tanto del governo e dell’opposizione usciva allora dalle pagine delle riviste specialistiche per entrare nelle argomentazioni dell’«uomo della strada». E quella vaga ideologia liberale che negli anni Cinquanta e Sessanta era stata patrimonio di alcuni esclusivi circoli intellettuali venne a definire i contorni della nuova koinè in cui tutta la classe politica italiana – vecchia e nuova – riconosceva i propri indiscutibili riferimenti intellettuali. Naturalmente si può discutere sulla sincerità di quelle – più o meno improvvise – conversioni al liberalismo (e spesso al liberismo economico) da parte della classe dirigente. Ma il punto è che la scienza politica italiana, dinanzi a questo brusco passaggio di fase, si trovò, più che spiazzata, sostanzialmente scavalcata. E da quel momento apparve costretta a rincorrere gli eventi, gli slogan, i leader, incapace di articolare un’analisi in grado di andare oltre la superficialità, spesso anche meno capace di comprendere la realtà dei mutamenti di quanto si mostrassero altri osservatori, più o meno digiuni dei rudimenti dell’analisi politologica.
Oggi, a più di vent’anni di distanza, è piuttosto chiaro come molte delle convinzioni coltivate all’alba della «Seconda Repubblica» fossero autentici abbagli. E gli storici del pensiero di domani troveranno persino sconcertante come nelle migliaia di pagine prodotte dalla «Risp» fra il 1991 e il 2011 risultino del tutto assenti analisi dell’integrazione europea nelle quali siano ravvisabili anche solo pallide tracce di una prospettiva non schiacciata su un europeismo acritico. Ma ciò che più conta è che proprio l’atteggiamento di passiva omologazione culturale al quadro politico della «Seconda Repubblica» ha finito col favorire ulteriormente la rimozione della teoria politica. Spinti dall’enfasi del cambiamento, molti politologi italiani giunsero infatti a gettare nel cestino tutto quanto era stato prodotto prima del 1992 e col credere che davvero l’Italia «finalmente» maggioritaria fosse un’Italia ‘diversa’, matura e migliore rispetto a quella della «Prima Repubblica». Probabilmente anche per questo iniziarono così a convincersi che i tempi fossero ormai maturi per rompere definitivamente con tutte quelle grandi domande che i cultori della teoria politica si erano posti. E che fosse ormai arrivato il momento di rimuovere definitamente anche la vecchia domanda su ‘cosa’ sia il potere, su quali siano le risorse che consentono di conquistarlo, di conservarlo, di accrescerlo. Ma una disciplina che tagliava definitivamente quei fili che la legavano al passato – e alla stessa identità culturale italiana – non poteva non diventare una disciplina schiacciata sul presente, priva di qualsiasi prospettiva storica, incapace di qualsiasi funzione realmente critica.
Più di tante analisi, c’è forse un’immagine che riesce a fotografare la condizione intellettuale in cui si trova oggi la scienza politica italiana. Proprio in occasione della presentazione del volume sui quarant’anni della disciplina, nel corso Convegno della Sisp tenutosi a Firenze nel settembre 2013, l’allora Presidente dell’associazione annunciava ai soci che il previsto incontro con il sindaco della città toscana – Matteo Renzi – era stato annullato. Ormai lanciato verso la conquista della Presidenza del Consiglio, l’ospite tanto atteso aveva infatti disertato l’incontro. In realtà l’assenza del sindaco era considerata pressoché scontata (forse anche a causa del titolo non proprio conciliante assegnato all’incontro: «Esame di scienza politica a Matteo Renzi»), e d’altronde i partecipanti al convegno si fecero ben presto una ragione dell’annullamento del confronto. Ma per mostrare la propria buona fede – una buona fede che peraltro mai nessuno avrebbe messo in discussione – il Presidente dell’associazione ritenne opportuno riepilogare dinanzi all’assemblea dei soci tutte le tappe che avevano condotto all’organizzazione del dibattito, esibendo persino la documentazione relativa alle comunicazioni intercorse nei mesi precedenti con il sindaco e il suo staff. Naturalmente dalla ricostruzione (a tratti persino sesquipedale) condotta dal Presidente, emergeva in termini inoppugnabili come l’incontro fosse stato pianificato con grande anticipo e come la mancata partecipazione del sindaco di Firenze fosse imputabile esclusivamente alla scarsa correttezza del politico, oltre che forse alla volontà di eludere un confronto che avrebbe potuto metterlo in difficoltà.
Ovviamente quell’incontro non avrebbe cambiato la politica italiana e, d’altronde, proprio nessuno si attendeva dal dibattito un seppur minimo arricchimento del dibattito scientifico e culturale. Ma proprio quel mancato appuntamento e l’astioso risentimento sollevato dalla diserzione dell’allora sindaco di Firenze riescono per molti versi a fissare la condizione in cui si trova la scienza politica italiana nella «Seconda Repubblica». Una scienza politica che – proprio come il Presidente dell’associazione – sembra inseguire costantemente (ma sempre senza successo) la classe politica italiana, alternando l’adulazione dei cortigiani al risentimento degli amanti traditi. Una scienza politica che appare sempre più schiacciata sul presente e incapace di confrontarsi realmente con i grandi mutamenti storici. E che, proprio per questo, è costretta a ricorrere la cronaca, senza ormai neppure la forza di guardare alla storia.
Commento (1)
glauco
E’ ormai il rigore scientifico di questi accademici dediti al nulla politologico, ossia al fiancheggiamento del potere e degli interessi mascherati da scienza. Poi diventano parlamentari, consiglieri, ministri; naturalmente restano assiologicamente neutrali e scientificamente oggettivi. Senza giudizi di valore, certo.