di Danilo Breschi
Prima di tutto, la parola a Fëdor Dostoevskij (I fratelli Karamazov, 1881, cap. V, Il Grande Inquisitore): “Non sei stato Tu a dire, allora, tante volte: “Voglio farvi liberi”? Ecco, ora li hai visti questi uomini “liberi”, […]. Lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, uno spirito terribile e intelligente, il grande Spirito […] ha parlato con Te nel deserto e, lo sappiamo dai libri, Ti ha “tentato”. […] Ricordati della prima domanda: […] “Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà, che il mondo, per la sua semplicità e per la sua innata intemperanza, non può nemmeno comprendere, della quale, anzi, si spaventa, e di cui inoltre ha timore, perché nulla è stato mai più insopportabile, per l’uomo e per la società umana, della libertà! Vedi, invece, queste pietre nel deserto nudo e ardente? Trasformale in pani, e l’umanità ti seguirà come un gregge, riconoscente e docile, benché eternamente palpitante per la paura di veder ritrarre un giorno la Tua mano, e privarla del Tuo pane”. Ma tu non hai voluto togliere all’uomo la libertà e hai respinto la proposta. “Che specie di libertà sarebbe, – Tu hai ragionato – se l’obbedienza fosse comprata coi pani?”. La Tua risposta fu che l’uomo non vive di solo pane; Tu sai, però, che al nome di questo pane quotidiano si solleverà contro di Te lo spirito della terra ed entrerà in lotta con Te e Ti vincerà, e tutti lo seguiranno […]. Tu hai promesso loro il pane celeste, ma […] come potrebbe esso tornar gradito quanto il pane terrestre, agli occhi della debole, eternamente viziosa e ignobile razza umana? […]. Per l’uomo rimasto libero, non esiste una preoccupazione più intensa e più dolorosa della preoccupazione di trovare un essere davanti al quale prosternarsi. […] La preoccupazione di queste misere creature […] non consiste soltanto nel fatto di trovare un essere davanti a cui questo o quell’uomo possa prosternarsi, ma di trovarne uno cui tutti, di colpo, abbiano creduto e al quale tutti si siano gettati ai piedi, ma assolutamente tutti insieme. In questa necessità appunto di comunione nell’adorazione consiste il maggior tormento di ogni singolo uomo e di tutta l’umanità, e ciò fin dal principio dei secoli. […] Non c’è nulla di più attraente per l’uomo che la libertà della sua coscienza, ma non c’è nulla, al tempo stesso, di più tormentoso. […] Tu gli hai dato tutto ciò che c’è di più inconsueto, ambiguo e impreciso, ciò che non fa per le sue forze, e quindi hai agito come se non li amassi affatto. Tu, che sei venuto a sacrificare per loro la Tua vita! Invece di impadronirti della loro libertà, l’hai accresciuta e hai oppresso maggiormente e per sempre, con le sue sofferenze, la vita morale dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente […] ma come hai fatto a non pensare che egli avrebbe finito per rinnegare e respingere anche la Tua immagine e la Tua verità, opprimendolo con un peso terribile come il libero arbitrio? […] Esistono tre forze, le uniche, sulla terra, che potrebbero affascinare e vincere per l’eternità la coscienza di questi deboli ribelli e dar loro la felicità; queste tre forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità. Queste tre forze le hai respinte Tu stesso una dopo l’altra. […]. L’uomo, infatti, non cerca tanto Dio, quanto il miracolo. E siccome egli non può rimanere senza miracoli, se ne creerà egli stesso di propri e si prosternerà allora davanti a un mago, a una fattucchiera, foss’egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo. […]”.
Lui, il Grande Inquisitore, un vecchio quasi novantenne, “alto e diritto, dal viso asciutto, con gli occhi incavati, ma con una scintilla che vi arde ancora”, scaglia questa raffica di domande a colui che, con ogni probabilità, è Gesù tornato fra noi, diciassettesimo o ventunesimo secolo poco importa. L’attualità è d’altronde lo spazio entro cui Dostoevskij amava muoversi, amante com’era della cronaca nera di cui nutrì la sua creatività di scrittore.
Già solo con queste parole che Ivan Karamazov mette in bocca al protagonista del poema filosofico che racconta al fratello Alioscia, Dostoevskij interroga ciascuno di noi, nessuno escluso. Michail Bachtin ha scritto dell’opera di Dostoevskij: “Simile al Prometeo goethiano, Dostoevskij crea non schiavi silenziosi (come Zeus), ma uomini liberi, atti a stare accanto al loro creatore, a non condividerne le opinioni e persino a ribellarsi contro di lui”. La polifonia propria della creazione artistica dostoevskiana ci legittima nel restituire queste “voci” come espressione di singole convinzioni o punti di vista sul mondo. Una di queste voci è quella del Grande Inquisitore, così come “inventata” da Ivan.
La “Leggenda” mette in scena uno tra i più grandi e gravi conflitti ideologici ed etici della cultura europea, acuitosi tra Otto e Novecento: fede come libertà o fede come sottomissione? E, ancora più in generale, la natura umana è maggiormente incline alla libertà intesa come autonomia, come desiderio e volontà di darsi una propria norma di condotta, o piuttosto è incline all’ubbidienza nei confronti di chi maggiormente gli assicura protezione e sostentamento? Se il mondo è davvero, come credeva Hobbes, una guerra di tutti contro tutti dove l’uomo è lupo per l’altro uomo, allora niente può eguagliare in efficacia la ricetta di un regime autoritario nel quale si baratta libertà con sicurezza e benessere materiale. Così gran parte della tradizione liberale, da Locke a Hayek, presuppone un’antropologia negativa, ossia una natura umana mossa da istinti di predazione e/o di conservazione. Con tale presupposto diventa difficile concepire la libertà individuale come possibile senza un tutore super partes, ossia lo Stato. Di qui la contraddizione intima e fondamentale della dottrina liberale: è al contempo contro lo Stato e non può fare a meno di un’autorità tutoria che educhi, nella migliore delle ipotesi, o imponga, nella peggiore, un comportamento rispettoso delle libertà altrui. La soluzione è il cosiddetto “Stato minimo”, ossia un dosaggio non eccessivo di ingerenza statale, necessaria e sufficiente (forse) a contenere gli istinti di predazione e a convertire quelli di conservazione in stimoli allo sviluppo e alla crescita diffusa dei più, se non di tutti. Insomma, Adam Smith: dal perseguimento dell’interesse da parte del singolo vien fuori ciò di cui l’altro ha bisogno.
Come potremmo, allora, avere mai uomini (e donne) amanti della libertà, che ne sentano la mancanza come e più del cibo? Una condizione tale per cui il pane non sia condizione sufficiente per una vita degna di essere vissuta? Dovremmo forse intendere e propendere per una antropologia positiva? Più radicalmente: dovremmo forse rispondere con Alioscia: che solo l’amore rende liberi e fa sopportare gli oltraggi ingiuriosi, annichilenti persino, con cui la vita sovente ci assale. Se l’uomo amasse davvero il prossimo come sé stesso non potremmo sollevare ogni individuo ed ogni consorzio umano dal fardello di un’istituzione tutoria? La perfetta anarchia figlia della massima applicazione del precetto cristiano? E se l’anarchismo è una forma di liberalismo privato di ogni cautela e senso di realtà, anche la dottrina liberale non abbisognerebbe di un’antropologia presa a prestito dal cristianesimo? La libertà di tutti, o dei più, solo se si dà amore diffuso tra i prossimi (ogni remoto potrebbe domani diventar prossimo, specie in tempi di globalizzazione). Libertà solo se c’è amore. Ma amore di Verità, è quello cristiano, e la Verità è il Verbo rivelato, fattosi carne in Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto per la nostra salvezza.
Libertà e amore, binomio abissale a cui ci conduce l’abisso della riflessione di uno degli “eroi” dostoevskiani. Il comunismo moderno pretese di realizzare una società di fratellanza. Una volta soppressi – anche violentemente – i borghesi nemici del proletariato, “classe universale”, i cittadini di un mondo comunistizzato potrebbero essere intesi come fratelli nel senso cristiano del termine? Prima obiezione: c’è l’impiego di violenza, abbondante, preventiva, giustificata in nome della vittoria politica, mondana, e niente di tutto ciò è cristianamente ammissibile. Seconda obiezione: il comunismo realizzato, tradotto in regime politico, ha piuttosto fatto proprie le “tre forze” proposte da Satana a Gesù nel deserto: il miracolo, il mistero e l’autorità. Le “tentazioni”, appunto. E poi, se ci limitiamo alle intenzioni, il comunismo moderno è quello teorizzato da Karl Marx, e dunque ebbe basi materialistiche. Un’antropologia materialistica. L’uomo marxiano, e comunista, vive anzitutto di pane. Se crede in Dio, a mo’ di un idolo, è solo perché ha fame, e sete, e freddo. Così Marx: “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale”. Ma la felicità reale, insegna Alioscia, è in quel tipo di amore che solo il Cristo ha saputo insegnare. Dunque, per chi ama e sostiene la libertà c’è solo un ritorno alla religione? O almeno ad una sua pratica diffusa tra i cittadini? Se si vuole una società libera, e di liberi, si deve cercare in un contesto di uomini (e donne) cristiani, ossia che hanno introiettato il messaggio di libertà portato da Gesù? Parrebbe questo un derivato possibile delle idee espresse nella “Leggenda” e così ferocemente avversate dal Grande Inquisitore, passato in partibus infidelium.
Dio ha insegnato e preteso da noi la libertà, anche di scegliere Lui o Satana. E, dato importante, bisogna credere senza il miracolo, perché questo, sì, è il vero oppio del popolo. Altrimenti non v’è differenza tra superstizione primitiva e religione cristiana. Questo insegna il Gesù deriso, e fortemente temuto dall’Inquisitore. Anche il liberalismo della prima modernità ha basi antropologiche e gnoseologiche di tipo materialistico, come il comunismo. Lo capirono autori post-rivoluzionari come Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville, che rifletterono ampiamente sull’uomo come “animale religioso” e sul rapporto tra religione e libertà. Il liberalismo nacque storicamente per opporsi a concezioni teocratiche del potere, che si fondavano su un’idea, ed una pratica, di religione molto simile a quella difesa dal Grande Inquisitore. Il liberalismo avrebbe oggi bisogno, per superare le sue più intime contraddizioni teoriche e fragilità pratiche, di recuperare un’idea di religione intesa come l’ha proposta il Gesù di cui ci parla anche la “Leggenda”? Dovremmo dunque lavorare, di pensiero e di concetto, ad un liberalismo fondato sull’amore? Più precisamente, per credere nella libertà occorre una qualche forma di fede nella trascendenza e nel non-transeunte? Ditemi la vostra.
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