di Antonio Capitano

Leggere di Federico Caffè è sempre una grande emozione. In queste recenti festività, approfittando della calma, ho piacevolmente meditato su alcuni profondi scritti di Bruno Amoroso e Daniele Archibugi, amici e allievi del maestro. Sono scritti che letti a pochi giorni da quel fatidico 15 aprile assumono ancora un significato più intimo e riflessivo. Le righe di Amoroso e Archibugi raccontano benissimo chi era Caffè quale fosse il suo rapporto con i suoi amati studenti e quale fosse la sua delusione per l’Italia “che non era il paese che sognava” per dirla con una bella frase recente di Carlo Azeglio Ciampi.

Ma perché questo “piccolo uomo” dalla statura gigante fa ancora parlare di sé? Perché chi lo ha amato e conosciuto (nel mio caso attraverso le sue parole scritte) lo cerca continuamente come bussola in tempi in cui il disorientamento è totale? Caffè non sopportava la decadenza dei suoi tempi e non riusciva a far finta di non vedere. E allora ha compiuto con estrema naturalezza il gesto più umano che un professore deve avere: dare importanza ai suoi allievi e prenderne tutte le risorse nuove, attingendo per osmosi l’entusiasmo che allunga la vita.

Ecco perché uno dei punti più dolorosi nel percorso terreno del maestro è stato quando, raggiunti i limiti di età, dovette lasciare l’insegnamento. Ma egli aveva ancora tanto da dire e da dare. E lo dimostra il fatto che ancora oggi lo si ricerca e se ne parla.

Ma nel mezzo dell’aprile 1987 evidentemente la sua depressione lo portò a scomparire alle luci dell’alba. Una scomparsa degna di un grande film d’autore. Nessun elemento che potesse ricondurlo a lui. Un’uscita di scena silenziosa e fragorosa. Un vuoto improvviso e insieme clamoroso. Il dolore immenso del fratello Alfonso, dolore che si è propagato anche ai suoi allievi e che si è trasformato in bisogno di sapere e di conoscere la verità. E di cercarlo. Forse, Caffè ha voluto essere discreto anche in questo. Non ha probabilmente voluto mostrarsi ai riflettori e come sempre ha voluto essere e non apparire. Questa è stata la sua forza. La concretezza e la sostanzialità. Gli studi, le affermazioni che non rimangono lettera morta o confinate in una mente ingenerosa; ma invece pragmatismo e poco formalismo e tutto in nome di quel sogno dell’economia di benessere tutta rivolta alla collettività. L’economia al servizio della persona. E la persona al centro, sempre al centro con convinta umanità e capacità di trasmetterla alle generazioni future. E da allora le parole di Caffè hanno assunto tutto un altro valore. Sono parole profetiche, lungimiranti e lucide. La specialità del maestro era tutta nella sua normalità, una semplicità che lo ha reso unico e inimitabile. Un modello al quale fare riferimento specialmente nei momenti più bui. In realtà, più della scomparsa, occorre oggi parlare della sua presenza. Ed è il modo per farlo vivere e per farlo ancora parlare con il suo linguaggio schietto e diretto tipico di un vero maestro autentico e prezioso. Per lui sembrano valere queste parole di Italo Calvino tratte dal libro Se una notte di inverno un viaggiatore, soprattutto nell’avvicinarsi del 15 aprile “Ci sono giorni in cui ogni cosa che vedo mi sembra carica di significati: messaggi che mi sarebbe difficile comunicare ad altri, definire, tradurre in parole… Sono annunci o presagi che riguardano me e il mondo insieme: e di me non gli avvenimenti esteriori dell’esistenza ma ciò che accade dentro, nel fondo; e del mondo non qualche fatto particolare ma il modo d’essere generale di tutto”.

In fondo Federico Caffè non ha mai smesso di volare alto continuando il suo “ viaggio”.

 

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