di Giulio Salerno*
Come noto, in questi giorni l’Assemblea del Senato ha avviato l’esame del progetto di riforma costituzionale che tocca alcuni nodi fondamentali dell’attuale disciplina contenuta nella II Parte della Costituzione, con particolare riferimento al Parlamento e al Governo. In particolare, sulla base del testo che è stato licenziato dalla I Commissione (Affari costituzionali) del Senato, si intendono perseguire contemporaneamente i seguenti obiettivi: abbassare l’età richiesta per l’elettorato passivo (e, per il Senato, anche quella per l’elettorato attivo); ridurre il numero dei componenti di ciascun Assemblea parlamentare; differenziare la posizione delle due Camere in relazione al solo procedimento legislativo, introducendo a questo fine una sorta di bicameralismo a competenza ripartita ed eventuale; prevedere un nuovo organo posto all’interno del Senato (la Commissione paritetica per le questioni regionali, in sostituzione dell’attuale Commissione bicamerale) e con la presenza di un pari numero di senatori e di rappresentanti delle Regioni, che avrebbe una funzione consultiva sui progetti di legge relativi ad alcune materie di diretto interesse regionale; accentuare la posizione del Governo nell’ambito del procedimento legislativo, mediante la possibilità di richiedere che i disegni di legge siano discussi e sottoposti a votazione a “data certa”; introdurre la sfiducia costruttiva; rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri, considerandolo diretto destinatario della fiducia parlamentare, attribuendogli il potere di proporre al Capo dello stato sia la revoca dei ministri, che lo scioglimento delle Camere, o di una sola, in caso di sfiducia; e, infine, dare un qualche rilievo, in seno ai regolamenti parlamentari, alle “prerogative e poteri del Governo”, così come “ai diritti delle opposizioni e delle minoranze”.
Ciascuna di queste proposte avrebbe la necessità di essere esaminata con attenzione; qui basti dire che non mancano aspetti critici, sui quali una parte della dottrina si è espressa anche con una qualche asprezza. Ad esempio, l’abbassamento dell’età dell’elettorato passivo (ed in parte di quello attivo) appare una misura non priva di spunti demagogici, così come la riduzione del numero dei parlamentari che non fosse coerentemente collegata a parametri obiettivi e comparabili con gli altri ordinamenti a noi consimili.
La creazione del bicameralismo differenziato ed eventuale, poi, introduce elementi di incertezza di non poco momento, ad esempio circa l’impiego di un criterio distintivo – le materie di cui all’art. 117, terzo comma Cost. – che in questi anni ha dimostrato di produrre notevole confusione nei rapporti tra Stato e Regione; oppure, non si comprende bene cosa dovrebbe accadere se si verificassero eventuali conflitti (negativi o positivi) che potrebbero tra i Presidenti delle due Assemblee circa l’attribuzione della competenza ad approvare “in prima battuta” (e, in caso di “richiamo” dell’altra Assemblea, in via prevalente e definitiva) i singoli disegni di legge.
Tra l’altro, alla luce di quanto sta avvenendo in questi ultimi mesi con il Governo Monti, cioè considerando che si sta legiferando per lo più mediante decreti-legge, si potrebbe anche discutere l’efficacia reale di siffatta riforma, dato che essa prevede – peraltro correttamente – che le leggi di conversione dei decreti-legge, così come numerose altre tipologie di leggi, dovrebbero continuare ad essere approvate secondo il classico meccanismo del bicameralismo perfetto. Ed ancora, la nuova Commissione senatoriale che prevede la presenza dei rappresentanti delle Regioni, appare scarsamente incidente sul procedimento di approvazione delle leggi statali di diretto rilievo regionale. Per non parlare delle criticità insite nei meccanismi relativi alla fiducia e alla sfiducia, in cui la prima è data separatamente dalle due Camere, mentre la seconda è votata “dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna delle due Camere”. Ed ancora appaiono piuttosto sfuocati gli esiti delle future disposizioni regolamentari sui “poteri” del Governo e sui “diritti delle opposizioni”.
Su quest’impianto riformatore, è altrettanto noto, sono sopravvenuti gli emendamenti presentati dal Pdl per introdurre una forma di governo improntata ai principi del semi-presidenzialismo, così come, tra gli altri emendamenti in discussione, ve ne sono alcuni – proposti soprattutto dalla Lega – che concernono una ridefinizione della composizione del Senato in senso più o meno “federalistico”.
Ed è risaputo che su tutta la questione grava il tema, per così dire, preliminare del nuovo sistema elettorale che dovrebbe sostituire l’attuale normativa che ha determinato danni assai gravi nel processo di selezione della rappresentanza politica.
Soltanto alcune brevissime considerazioni di carattere generale possono essere qui svolte. Il testo formulato dalla I Commissione si presenta come il frutto di un difficile e complesso lavoro di mediazione tra le tante proposte presentate in questa legislatura. Alcuni lo hanno criticato perché introdurrebbe modifiche sino troppo incisive sul vigente testo costituzionale; altri hanno considerato la proposta in questione come una sorta di “vestito di Arlecchino” che riunisce spunti tratti da diverse esperienze straniere, senza una precisa e chiara scelta di fondo.
Certo, in un momento così difficile per il Paese tutto, discutere di riforme costituzionali, di bicameralismo e di forma di governo potrebbe apparire come una sorta di fuga dalla realtà. A nostro avviso, invece, proprio in questi frangenti si dovrebbe avere il coraggio di affrontare alcune questioni che hanno confermato quanto sostenuto alcuni anni fa da Maurice Duverger a proposito della nostra forma di governo: essa si è proposta e si è sviluppata come una vera e propria democrazia de l’impuissance. Il nostro modello istituzionale, derivante dalle scelte del Costituente, ha avuto sì numerosi frutti positivi per la collettività, ma ha anche prodotto esiti sconcertanti e difficilmente contestabili, ad esempio, sia dal punto di vista della moralità pubblica che da quello della gestione delle finanze. Peraltro, la presenza dei soli vincoli esterni, come quelli provenienti dall’Unione europea e che hanno condotto alla recente riforma costituzionale sull’introduzione del principio dell’equilibrio di bilancio (la legge cost. n. 1 del 2012), non appare sufficiente per una effettiva riforma del costume politico, né, del resto, può o deve condizionare il processo di autoriforma del nostro ordinamento costituzionale.
La scelta di un sistema di governo davvero più efficiente, che razionalizzi in modo coerente l’assetto istituzionale e che consenta di controllare le spinte disgreganti e responsabilizzi in modo più trasparente il ceto politico-rappresentivo, deve essere una prospettiva da prendere in seria considerazione, innervando di essa questo progetto di riforma che appare per molteplici aspetti debole e compromissorio. La sfida del presidenzialismo – ovvero del semi-presidenzialismo alla francese -, allora, è una strada che le forze politiche dovrebbero seriamente considerare, al di là delle controversie tattiche del momento, non per farne un oggetto di controversia utile soltanto per rinviare decisioni cruciali per l’intera Repubblica, ma soprattutto per rendere quest’ultima davvero all’altezza dei tempi.
* Ordinario di Diritto pubblico all’Università di Macerata e firmatario del manifesto-appello sul semi-presidenzialismo pubblicato sul “Corriere della Sera” del 10 giugno 2012.
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