di Danilo Breschi
Senato elettivo o non elettivo? Immunità dei senatori, sì o no? Tagliamo la testa al toro e sciogliamo l’inutile e controproducente dilemma, e dunque aboliamo il Senato. Senza vie di mezzo. Eliminato. Monocameralismo per l’Italia? Non proprio, non del tutto, se ci spaventano le riforme radicali. Con cosa allora sostituire il Senato? Si vuole creare una camera che esprima la plurisecolare, complessa articolazione regionale e tradizione autonomistica della penisola italiana? Ebbene, si prenda un organo collegiale introdotto nel 1983 ma configuratosi in modo stabile (così come oggi si presenta) solo nel 1997. Il suo scopo è favorire e consolidare la collaborazione istituzionale tra lo Stato e le autonomie locali. Stiamo parlando della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. Secondo quanto stabilito nel decreto legislativo n. 281/1997 che l’ha istituita, e per dirla con le parole con cui è presentata sul suo apposito sito istituzionale, la Conferenza “opera nell’ambito della comunità nazionale per favorire la cooperazione tra l’attività dello Stato e quella delle Regioni e le Province Autonome, costituendo la ‘sede privilegiata’ della negoziazione politica tra le Amministrazioni centrali e il sistema delle autonomie regionali”. Inoltre, tra le sue principali funzioni e attività vi sono l’acquisizione da parte del Governo delle informative provenienti dalle Regioni sui più importanti atti amministrativi e normativi di interesse regionale, nonché la trattazione, in apposite sessioni, di tutti gli aspetti della politica comunitaria che sono anche di interesse regionale e provinciale.
Attualmente è previsto che la presidenza della Conferenza sia affidata al presidente del Consiglio dei ministri, ma che, su delega di questi, a convocarlo e a presiederlo possa essere il Ministro per gli affari regionali e autonomie. Evidentemente, qualora si volesse dare alla Conferenza permanente le vesti di organo costituzionale compartecipe, in termini essenzialmente consultivi, del processo legislativo statale, la sua composizione potrebbe essere parzialmente rivista e la presidenza affidata ad una carica eletta all’interno dei componenti della Conferenza, in modo da garantirne una maggiore, sia pur sempre, relativa autonomia. Suoi componenti sono, attualmente, i 20 Presidenti delle Regioni a statuto speciale e ordinario e i 2 Presidenti delle Province autonome di Trento e di Bolzano, nonché, eventualmente, i ministri interessati agli argomenti iscritti all’ordine del giorno nonché rappresentanti di amministrazioni dello Stato e di enti pubblici. Resterebbe poi da capire quali poteri affidare alla Conferenza: se legislativi, se amministrativi oppure entrambi. E se restare ad un livello per così dire federale, oppure regionale, per quanto concerne ambito ed efficacia dei suoi provvedimenti. Non bisogna inoltre dimenticare che la Conferenza rappresenta solo gli esecutivi, quindi le maggioranze, delle regioni. Sotto questo profilo, ricorda un po’ il Bundesrat tedesco. Per migliorarne la rappresentatività si potrebbe dunque modificarne la composizione, dando spazio proporzionato alle minoranze. Ma comunque, come per il Bundesrat, non si tratta di (ri)dare vita ad una seconda camera, ma di introdurre un “monocameralismo di fatto”. Ciò di cui parlava ieri il deputato Pd Matteo Richetti, in una intervista a “Il Giorno”.
Di solito gli studiosi obiettano che si riscontra l’adozione di un sistema parlamentare a camera unica solo in Stati piccoli ed omogenei, davvero unitari. Uniti, soprattutto. Facile quindi ribadire che l’Italia è uno Stato a bassa intensità unitaria e dalla forte vocazione regionale e locale, se non localistica. Una nazione affetta storicamente da un profondo deficit di integrazione, attraversato periodicamente da profonde divisioni interne. Ma le contro-obiezioni sono almeno due. Prima contro-obiezione: non è certamente da ora né dalla riforma del Titolo V (2001) che la Repubblica italiana si configura come uno Stato che riconosce costituzionalmente un ruolo tutt’altro che secondario al decentramento regionale. Pur a lungo priva di un’autonomia finanziaria, la regionalizzazione “a statuto ordinario” sancita nel 1970 (per non parlare di quella “a statuto speciale” già avviata tra 1947 e 1963) è stata un processo indiscutibile, consolidatosi nel trentennio successivo. Già nel 1995 con la riforma del sistema elettorale regionale in senso maggioritario si era rafforzato l’esecutivo regionale; rafforzamento definitivamente sancito con la piccola modifica costituzionale del 1999, che introdusse l’elezione diretta del presidente della Giunta regionale. Nei media si cominciò a denominarlo “governatore” (titolo attribuito ai capi degli esecutivi degli stati federati negli Usa…!). Dunque, da tempo abbiamo garanzie a tutela dell’autonomia regionale, eppure ciò non ci ha preservato da un riapprofondirsi di storiche divisioni, anzitutto tra Nord e Sud. Non dimentichiamo poi che è soprattutto a livello di governo regionale (e locale) che la “seconda Tangentopoli” si è manifestata con scandali. Si imputa, spesso e da più parti, proprio all’eccesso di autonomia potestativa conferita alle Regioni dopo il 2001 la recente escalation di corruzione e sprechi.
Seconda contro-obiezione: se uno dei più gravi tra i persistenti problemi politici della nostra Repubblica è quella di fondarsi su uno Stato unitario ma non unito, allora non si capisce perché non scommettere sull’azione “unificante” che può essere svolta dall’assenza di un moltiplicatore di localismi quale potrebbe essere un Senato federale. Si dice che sarebbe, al contrario, una camera di compensazione, un organo di riequilibrio in senso centripeto di tensioni e spinte centrifughe. Ma a tale scopo ci si chiede perché non utilizzare in modo più sistematico, e con più frequente periodicità, un organo finora sottoutilizzato qual è la Conferenza permanente Stato-Regioni senza, per questo, conferire particolari poteri di co-legiferazione a rappresentanze regionali che, semmai, hanno già modo di esprimersi nel loro rispettivo livello territoriale. Avendo regioni comunque forti di prerogative significative e incisive, si rischierebbe un doppione anche scegliendo la strada del cosiddetto “Senato federale”. Da una spola orizzontale (Camera-Senato, oggi) ad una verticale (Senato federale-Regioni, domani). Tanto per dire che anche quella del potenziamento della Conferenza Stato-Regioni è soprattutto un pretesto da parte mia per suggerire il passaggio dal bicameralismo perfetto al monocameralismo (magari imperfetto, in virtù di un ruolo co-legislativo, pur assai ristretto, che potrebbe essere svolto dalla Conferenza, sempre stile Bundesrat).
Se proprio si vuole semplificare, si vada alla radice. Aboliamo il Senato. Quel che conta è trovare un equilibrio tra rappresentatività e governabilità. È dunque sulla legge elettorale che si deve lavorare, e ritrovarsi d’improvviso con una sola Camera potrebbe (dovrebbe) indurre le forze politiche a ripensare con più serenità anche una legge elettorale che, a quel punto, dovrebbe mirare ben oltre le convenienze dei singoli partiti. Ad esempio: liste bloccate o spropositati premi di maggioranza. Convenienze che si rivelano sempre molto contingenti, effimere. Quel che pare oggi vantaggioso, domani potrebbe rivelarsi un handicap. La storia politica e costituzionale insegna in tal senso. Dopodiché, meglio sarebbe, in contemporanea, lavorare anche su una riforma dell’esecutivo, in modo da rafforzarne i poteri senza attenuare limiti e controlli esercitati dal legislativo, auspicabilmente riportato a maggiore rappresentatività (e a ciò non bastano però le preferenze). Sarebbe sufficiente conferire al presidente del Consiglio la facoltà di nominare e di revocare i ministri. Un modo anche per togliere al presidente della Repubblica prerogative che, nei casi – sempre più frequenti – in cui la maggioranza parlamentare manca o è debole, svolge un ruolo “non troppo diverso – e per certi versi anche più incisivo – da quello svolto dal sovrano nel periodo liberale”. Parola, datata 2006, di Carlo Guarnieri, professore di Sistema politico italiano all’Università di Bologna. Con tale modifica e passaggio di prerogative si potrebbe fare anche a meno, almeno per ora, dell’elezione diretta dell’esecutivo. Non solo si eviterebbe quel presidenzialismo ancora dai più (parlo di studiosi e politici) temuto e avversato, ma si ridurrebbe fortemente quel presidenzialismo strisciante che da diversi anni è invece concretamente attivo e operante nella nostra Repubblica parlamentare.
Perché, infine, questa proposta di abolizione del Senato, apparentemente così drastica, radicale e persino bizzarra? Perché faccio anche qui tesoro di un insegnamento di Carlo Guarnieri, sempre risalente ad otto anni fa: “può essere forse deludente per molti, ma le possibilità di mutamento dipendono in larga misura da riforme che spingano continuamente la classe politica a comportarsi ‘virtuosamente’ e ne ostacolino le ‘naturali’ tendenze alla collusione”. Magari questa bizzarra proposta di radicale abolizione può andare in tale direzione. In ogni caso, qualsiasi riforma dipende “da strategie di lungo periodo e dalla perseveranza con cui vengono applicate”. La perseveranza pare esserci nell’attuale presidente del Consiglio, almeno a parole. La strategia è meno chiara, anche a parole. Ma confidiamo nella sindrome da “dopo di me il diluvio”… Sperando che contagi molta classe politica e burocratica, e smacchi il gattopardo che è in ognuno di loro (e di noi). E le (eventuali) buone intenzioni di uno, o pochi, diventino le buone realizzazioni dei molti.
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