di Giuseppe Romeo
Il momento non è dei più rasserenanti. Lo scontro sulle riforme in parte avviate, in parte ancora da definire dimostra quanto questo Paese soffra di un’incertezza sulle proprie capacità, sulla propria storia costituzionale, sul proprio futuro. Riorganizzare istituzioni e poteri dello Stato non è cosa facile né può ridursi ad una trattativa fra i partiti con accordi che politicamente mercificano, su punti di vista spesso non ragionati e non confrontati con la storia di una nazione, assetti fondamentali di governo e di partecipazione politica. Nelle varie riforme proposte sembra quasi che l’unica caratteristica che le contraddistingue sia il raggiungimento di un accordo partitico. Uno scambio di opportunità e garanzie per sopravvivere politicamente, con un governo che tenta di affermare la propria idea e difendere se stesso.
Mettiamo pure da parte che non sembri sia mai stato attribuito un mandato popolare esplicito, diretto a riformare il Paese a questo governo. E collochiamo altrettanto in secondo piano i motivi per cui, tra vicende giudiziarie e collaterali fallimenti di governance locale, vi sia la necessità che qualcuno possa decidere per tutti. Tuttavia, se la crisi di uno Stato, ovviamente quello italiano, dovuta ad una sempre più complessa e ingovernabile macchina istituzionale potrebbe giustificare urgenti provvedimenti di riforma, non si può non considerare che ogni tentativo di cambiamento inciderà sugli assetti costituzionali di fatto e di principio sui quali si è costruita la nazione. Proprio per questo, una riforma possibile non può giustificarsi solo con la necessità di semplificare l’organizzazione del Paese poiché non si possono, se è di democrazia che si tratta, semplificare principi e diritti garantiti. Ovvero, se necessità vuole che una maggior rapidità di discussione e di decisione sia l’elemento sul quale fondare la nuova dialettica politica partendo da una rappresentatività allargata solo del vincitore, questa però non può superare il limite dei contrappesi democratici garantiti ai non vincitori e al resto dell’elettorato.
Insomma, ferma restando la riserva che intervenire su aspetti e istituzioni del potere legislativo comporterebbe una modifica costituzionale – e che tale modifica dovrebbe avere una legittima delega data dal cittadino – ridurre il Senato paradossalmente ad una istituzione parlamentare priva di rappresentatività elettiva e, quindi, di mandato sovrano, significa spostare, disponendo subito dopo di una ennesima “nuova” legge elettorale ad hoc, tutto il potere sulla Camera dei Deputati. Camera, questa, che diventerebbe indiscutibile espressione del potere del vincitore con pochi margini di possibilità di contraddittorio, di controllo in aula sulla maggioranza e da parte dell’aula sull’esecutivo. Ora, se il Senato ha ancora una sua ragione questa non è solo data dall’essere un alter ego della Camera dei Deputati quale camera di garanzia; cioè far si che un bicameralismo perfetto impedisca derive unilaterali nel campo legislativo che possano annichilire qualsiasi tentativo di opposizione o di revisione di progetti di legge nelle loro varie forme. Certo, una camera maggioritaria, unica e sola, chiuderebbe il cerchio sul potere del Capo dell’esecutivo che si troverebbe a disposizione un luogo di pre o post-ratifica delle proprie scelte con ampi margini di azione e ridotte contromisure di controllo. Ma ciò non realizzerebbe i principi costituzionali di democratico bilanciamento delle parti seppur una maggioritaria e l’altra minoritaria. Disporre di una seconda Camera, ed è qui la ragione del Senato, che rappresenti i cittadini con altra proporzionalità e territorialità, assumerebbe proprio in tale prospettiva di riforma un suo significato. Il Senato, infatti, può avere un suo fondamento quale luogo di espressione delle autonomie locali riconosciute costituzionalmente e se esso è il risultato di una rappresentatività voluta dai cittadini e non imposta dai partiti. In un modello costituzionale nel quale è prevista come forma di Stato quella regionale affidare al Senato un ruolo di Camera delle autonomie non è, quindi, certo fuori luogo. Anzi, essa è il completamento del decentramento del potere coerentemente con le previsioni dell’art. 5 della Costituzione. Semmai fuori luogo sono i termini della riforma che si vorrebbe inaugurare.
La situazione odierna ci pone di fronte ad una possibile revisione del potere legislativo che dovrebbe avere per sua natura un carattere intrinseco di costituzionalità e che, proprio per questo, non può essere affidata ad un esecutivo e ad un Parlamento che non hanno, entrambi, ricevuto dall’elettorato un mandato specifico per cambiare gli assetti istituzionali e i caratteri di un potere in maniera così radicale. Il Senato ha già ha una sua legge elettorale ancorata ad una dimensione regionale, sia nel computo dei voti che nella definizione dei termini di attribuzione dei seggi. Il vero problema, allora, è garantire in prospettiva al Senato non tanto i numeri dei senatori – ridiciamoli pure – quanto una specifica competenza di controllo sulla legislazione nazionale e un potere di legiferare su quella che viene chiamata legislazione concorrente. Ovvero attribuire al Senato il potere di esprimersi con sovranità nelle materie già affidate all’autonomia locale. Tutto questo per due motivi. Il primo, perché la Costituzione prevede all’art.117 le materie nelle quali le Regioni possono decidere con proprie norme, seppur nell’ambito di un quadro di obiettivi definiti in termini generali dallo Stato. Il secondo, perché, ferma restando la necessità di perseguire il risultato finale, ogni regione può decidere mezzi e metodi per raggiungerlo rendendo aderente alle proprie richieste i risultati dell’azione condotta. Come si vede, l’utilità o meno del Senato non dovrebbe essere in discussione se si volesse rivitalizzare e rendere utile la sua attività. Ma oggi, in verità, sembra essere in discussione un’altra cosa: il tentare di offrire un modello di potere legislativo quasi autocratico. Ovvero, un potere fondato su una Camera costituita da parlamentari eletti con una legge che già esautora l’elettore dall’esprimere ogni preferenza, costretto ad affidarsi alle scelte del partito e su un’altra, il Senato, da ridurre a ulteriore luogo di nominati, di senatori che prescindono da una investitura popolare e a cui si attribuiscono poteri residuali, in ogni caso non legislativi e, addirittura, neanche di controllo. E’ evidente che di fronte ad un tale sistema – disponendo in futuro di una legge elettorale “a misura”, coerente con gli obiettivi che si vogliono perseguire – una maggioranza piena alla Camera dei Deputati farà si che questa diventi il luogo di legittimazione sia prima che dopo della volontà dell’esecutivo. Un completamento del restringimento dei termini e delle opportunità di dialettica politica a cui si sommano le ancor più complesse possibilità per il cittadino di ricorrere a quei pochi, e già di fatto resi inefficaci, mezzi di iniziativa popolare garantiti dalla Costituzione.
E allora, il “nuovo” Senato? Il “nuovo” Senato, al di là delle apparenze, così come proposto, non co-deciderà nulla; resterà semplicemente a guardare o prenderà nobilmente atto di quanto già deciso. E’ evidente che una riforma così scritta lascerà aperti molti dubbi sulla sua reale portata e sul significato, poiché essa sembrerà sottendere più mire politiche di potere che esigenze di funzionamento. I ruoli delle due Camere del Parlamento potevano essere efficacemente distinti guardando al dettato costituzionale riservando, questo si, alla Camera dei Deputati il potere legislativo su argomenti e materie di interesse nazionale (Politica Estera, Politica Economica, Difesa e Sicurezza Nazionale, Trasporti, Sanità, Istruzione) ma con una supervisione e un controllo esercitato da parte del Senato quale espressione delle autonomie locali a cui esso fa riferimento. Al Senato sarebbe stato sufficiente attribuire l’iniziativa di porre in essere le norme-quadro, ovvero le cosiddette leggi-delega nelle materie previste dall’art.117 Cost., affidandole alle legislazioni concorrenti, ovvero a quelle delle autonomie locali a cui la Costituzione riconosce potere legislativo, cioè le regioni, esercitando su di esse un controllo successivo su tempi, modi e risorse impiegate per raggiungere gli scopi prefissati. In questo modo si sarebbero ottenuti due obiettivi. Il primo, una razionalizzazione per competenze delle due Camere senza sovrapposizioni. Il secondo, la garanzia dell’attuazione delle capacità di sussidiarietà nell’azione di governo. E’ evidente che siffatte camere elettive non potrebbero che essere legittimate da modelli diretti di elezione dei rappresentanti. Per la Camera con un sistema proporzionale, calcolato su base nazionale, a sbarramento fissato al minimo al 4%, ma preferibilmente al 6%, (soglie che costringerebbero i partiti cosiddetti minori a riconoscersi in coalizioni più ampie e rappresentative e permetterebbero al cittadino-elettore di poter scegliere il proprio rappresentante con le preferenze). Per il Senato, un sistema maggioritario su collegi ovviamente regionali. In un “nuovo” Senato così legittimato potrebbero sedersi non solo gli eletti, ma di diritto anche i Presidenti delle Giunte Regionali e delle Province autonome. Una riforma di una semplicità estrema che non avrebbe rivoluzionato quanto previsto dal Costituente, ma che, al contrario, avrebbe attuato quelle volontà presenti nella Carta e disattese in tutti questi anni per soddisfare, sull’onda emotiva di una riforma che nasconde il fallimento di un’intera classe politica, solo interessi di partito per non dire di potere.
La democrazia non è semplificazione. Essa è ragionevole senso della partecipazione. Il resto ha un altro significato che, a guardare con altri occhi, ci porterebbe a fare i conti con una sorta di realismo senza scrupoli. Un realismo che nel richiamare Hobbes getta nel cestino definitivamente quella, consunta, ma stranamente mai realizzata, democrazia liberale e parlamentare di Tocqueville e con essa secoli di lotte costituzionali per affermare, contrariamente a quanto “costituzionalmente” previsto, il principio se non proprio le ragioni del più forte: ovvero di chi avrà la maggioranza assoluta su tutti decidendo sulle leggi, sui poteri, sulle istituzioni. Ed è strano che tutto ciò avvenga all’ombra di una Costituzione che proprio chi oggi ne cerca la modifica dovrebbe sentirsi depositario se non addirittura erede – per cultura e prossimità politica – delle ragioni di coloro che l’hanno voluta così. Rigida nei principi e nei meccanismi ma non immodificabile se rispettata nei valori Una rigidità nella sua stesura e nei contrappesi ricercata per arginare ogni tentazione futura di orizzonti ad una sola dimensione.
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