di Alessandro Campi
Sembra di essere tornati a un anno fa, alle settimane che precedettero la resa dei conti finali tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi, quel fatidico 14 dicembre. L’idea di sfiduciare quest’ultimo con un voto parlamentare, per favorire la nascita di un governo istituzionale o di larghe intese e chiudere così la stagione del berlusconismo, si risolse in un disastro per quei dissidenti del Pdl che avevano accettato di schierarsi con il Presidente della Camera dopo mesi di polemiche e contrasti assai feroci tra i due ex alleati. Al momento del voto decisivo, la maggioranza di centrodestra fedele al Cavaliere resse l’urto grazie all’acquisizione in extremis – lasciamo perdere con quali mezzi – di un pugno di deputati provenienti da altre formazioni politiche. I nemici di Berlusconi dovettero ammettere di averlo sottovalutato ancora una volta. Per Fini e i suoi uomini iniziò una fase tormentata e difficile, che si concluse con la nascita di un partitino dal futuro assai incerto.
Oggi il posto di Fini è stato preso, sembrerebbe, da Giuseppe Pisanu e Claudio Scajola, che si sono assunti il compito di guidare quelle frange del Pdl che ritengono necessario, per la propria personale salvezza e per quella del Paese, l’inizio di una nuova fase politica. Se Berlusconi non si decide a lasciare volontariamente la mano, richiesta che il diretto interessato esclude con forza considerandola alla stregua di un insulto personale, minacciano di scalzarlo togliendoli i numeri in Parlamento. Siamo dunque alla vigilia di una nuova prova di forza? E chi la vincerà stavolta: i congiurati di antica fede democristiana, che tutti considerano più scaltri e accorti dell’irruento Fini, o come al solito Berlusconi, spregiudicato e dalle infinite risorse?
In realtà, lo scenario odierno, al di là delle apparenti similitudini, è profondamente diverso rispetto al recente passato. Per cominciare, gli scandali degli ultimi mesi hanno definitivamente intaccato l’immagine pubblica del Cavaliere, anche agli occhi di una parte consistente del suo storico elettorato. Se Fini fu considerato un volgare traditore dall’intero popolo di centrodestra, oggi gli avversari interni del Cavaliere possono contare sul sentimento di crescente delusione anche di molti berlusconiani della prima ora.
L’altra differenza è rappresentata dalla grave crisi economica e finanziaria in cui nel frattempo è piombata l’Italia e che il governo non sembra in grado di affrontare. Fini, al momento in cui lanciava l’assalto finale, aveva alle sue spalle una vasta claque mediatica, in gran parte ispirata dalla sinistra, che lo spingeva a rompere traumaticamente col suo antico sodale, ma nel centrodestra era politicamente solo con la sua pattuglia. Oggi a chiudere l’uscita di scena del Presidente del Consiglio è un vasto fronte sociale e culturale, tutt’altro che riconducibile all’opposizione, che va dalla Confindustria all’associazionismo cattolico.
Ci sono poi da considerare i cambiamenti intervenuti all’interno della Lega. Umberto Bossi continua a dichiararsi fedelissimo al Cavaliere, ma nel corso dell’ultimo anno anche il leader del Carroccio ha dovuto fare i conti con le frustrazioni della sua base, che non comprende più le ragioni di un’alleanza che in prospettiva rischia di penalizzare gli interessi della Padania e di mettere in discussione l’avvento del federalismo, e con le inquietudini di un pezzo consistente del suo gruppo dirigente, che vede in Roberto Maroni il successore legittimo dell’anziano capo.
Altra variabile da considerare è il ruolo che nella crisi che si annuncia potrebbe giocare il Pdl, la cui guida è stata nel frattempo assunta da Angelino Alfano. Fini all’epoca si scagliò contro il cesarismo di Berlusconi e considerò fallimentare sia la sua avventura politica sia l’esperienza del partito che insieme a quest’ultimo aveva contribuito a far nascere. Coloro che oggi chiedono al Cavaliere un passo indietro gli riconoscono ampi meriti politici, gli chiedono di pilotare lui stesso la sua successione e reputano che un Pdl non più guidato in modo assolutistico e monocratico e depurato da ogni estremismo ideologico possa contribuire alla nascita della “casa comune” dei moderati italiani, nel solco del popolarismo europeo.
Da ultimo, appare diverso il progetto politico-culturale che ispira le manovre di Pisanu e Scajola rispetto a quello, rivelatosi velleitario o forse semplicemente prematuro, che animava Fini. Quest’ultimo voleva creare una “nuova destra”, repubblicana laica e riformista, alternativa al populismo leghista-berlusconiano. I primi sembrano ambire – benedetti dalla Chiesa o comunque ispirati dalle recenti prese di posizione della Cei – alla creazione di un “grande centro”, alla costituzione di un nuovo contenitore politico nel quale possa riconoscersi, in prospettiva, la diaspora politica democristiana, dall’Udc di Casini ai cattolici che attualmente militano nel Pd.
Tutto ciò detto sulle differenze di fondo tra i due scenari, le incognite tattiche che sembrano gravare sulle manovre in corso sono le stesse che accompagnarono quelle finiane e che contribuirono al loro fallimento. Se cade Berlusconi, si dice, l’Udc potrebbe accettare (magari insieme a Fini) di dare vita ad una nuova maggioranza di centrodestra, guidata da Alfano o da Gianni Letta, che poi sarebbe la stessa del 2001. Ma sicuri che la Lega – di nuovo in marcia sulla via della secessione e sino a prova contraria ancora guidata con mano ferma da Bossi – sia interessata a una simile prospettiva? Si può contare sull’appoggio di Alfano per indurre Berlusconi a dimettersi volontariamente se il segretario del Pdl non fa altro che ripetere (memore del modo con cui è arrivato alla guida del partito) che si tratta di una prospettiva semplicemente impraticabile? E se Berlusconi, scalzato con brutalità dal suo ruolo, decidesse di spaccare il Pdl e di creare quel nuovo partito personale di cui tanto si parla in questi giorni?
A questo punto, nessuna nuova maggioranza di centrodestra sarebbe possibile e gli unici scenari sarebbero le elezioni anticipate con l’attuale legge elettorale (esattamente ciò che i seguaci di Scajola e Pisanu vogliono evitare per timore di perdere lo scranno anzitempo) o, numeri permettendo, un governo di fine legislatura basato sull’alleanza – che già si immagina politicamente assai precaria – tra il centrosinistra, il Terzo Polo e la pattuglia dei dissidenti del Pdl. Una prospettiva che al Cavaliere, una volta che fosse costretto a mollare la presa, forse nemmeno dispiacerebbe: lascerebbe agli avversari l’amara incombenza di gestire la crisi economica e si preparerebbe – dall’opposizione, magari con un nuovo partito – alla battaglia elettorale del 2013.
Quanto basta, insomma, perché i frondisti che in queste ore minacciano di passare all’azione rivedano, per timore di aprire scenari difficili da gestire, i loro propositi bellicosi. La questione in fondo è semplice da riassumere. Se Berlusconi lascia il suo incarico volontariamente, tutto risulta facile e ogni futuribile può realizzarsi. Se non lo fa o è costretto a farlo, tutto appare tremendamente complicato e ogni soluzione rischia di risolversi in un drammatico vicolo cieco.