di Luca G. Castellin
Herbert George Wells, La scoperta del futuro, Luiss University Press, Roma 2021, pp. 80
«Tutte le persone», osserva Herbert George Wells in The Discovery of the Future (1902), «credono che il passato sia certo, definito e conoscibile, e solo poche persone credono che sia possibile conoscere qualcosa del futuro» (p. 49). Nel testo di questa conferenza, tenuta alla Royal Institution of Great Britain, l’autore inglese torna ancora una volta a interrogarsi intorno a un tema che accompagna tanto la sua produzione narrativa, quanto la sua riflessione filosofica: ossia il (problema del) futuro.
Wells (nella foto in basso) è stato certamente uno fra i più popolari e prolifici scrittori della sua epoca, nondimeno può – e, forse, deve – essere considerato un altrettanto famoso e originale pensatore politico. Nel torno di tempo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’autore inglese pubblica una serie di racconti che costituiscono un vero e proprio ciclo distopico, edificato sull’atmosfera fin de siècle dell’età vittoriana, che prende inizio con The Time Machine (1895) e si conclude con The Shape of Things to Come (1933). La visione del futuro proposta da Wells è assai cupa e drammatica. Il risultato è sia una anticipazione delle dinamiche socio-politiche, sia una prospettiva escatologica.
Accanto ai romanzi, però, l’autore inglese propone numerosi saggi – come Anticipations (1902), Mankind in the Making (1903), e A Modern Utopia (1905) – attraverso cui è in grado di leggere, interpretare e (perfino) ‘immaginare’ le dinamiche scientifiche, politiche e sociali del proprio tempo. La scoperta del futuro, per la prima volta pubblicato in edizione italiana, si inserisce pienamente nell’ambito della saggistica wellsiana, e rappresenta un prezioso contributo – non tanto per originalità, quanto piuttosto per capacità di sintesi – con cui lasciarsi introdurre alle differenti fonti del pensiero politico-sociale di Wells.
Nella prima metà del XX secolo, l’autore inglese elabora infatti una forma di socialismo cosmopolitico, in cui convergono diverse matrici teoriche, come il positivismo di Auguste Comte, il pragmatismo di William James, l’evoluzionismo di Charles Darwin, e il riformismo della Fabian Society. Nella convinzione che, «entro certi limiti e con determinati requisiti, una conoscenza funzionale delle cose del futuro sia possibile e praticabile» (pp. 51-52), Wells propone una visione ‘progressiva’ e, per molti versi, ‘utopica’ del divenire storico. Emblematico è pertanto lo spazio dedicato dall’autore alla questione dello «Stato mondiale». Una istituzione, quest’ultima, che egli circonda di un potere (quasi) irenico o palingenetico.
Wells, infatti, immagina «un grande Stato mondiale» che «eliminerà da sé molto di ciò che è meschino e di ciò che è bestiale, molto di ciò che causa l’apatia individuale, la monotonia, il grigiore e lo squallore del mondo di oggi» (p. 70). Eppure, prosegue l’autore, in maniera più cauta, questo «Stato mondiale di persone più vivide, belle e vivaci è, per così dire, sulla sommità della collina, di conseguenza non possiamo vedere oltre», «non possiamo vedere nulla di definito», né «nulla di dimostrabile» (p. 70).
Tuttavia, nel concludere la propria relazione, Wells abbondona ancora una volta ogni prudenza, evidenziando così speranze (personali e collettive) che i decenni successivi finiranno per tradire, ma che rappresentano comunque la cartina di tornasole di un’intera generazione. «La società umana», egli sostiene, «non è mai stata veramente statica e smetterà anche di cercare di esserlo. Tutto sembra puntare verso la convinzione che stiamo per entrare in una fase di progresso che, con una falcata sempre più ampia e sempre più sicura, proseguirà per sempre. La riorganizzazione della società che sta avvenendo oggi, sotto la tradizionale apparenza delle cose, è una riorganizzazione cinetica. Ci stiamo mettendo in formazione di marcia. Abbiamo lasciato l’accampamento per sempre e ci siamo messi in cammino» (pp. 74-75).
Così come altre opere della saggistica wellsiana, La scoperta del futuro possiede un intento chiaramente ‘prescrittivo’ che stride vigorosamente con la forza ‘descrittiva’ della sua produzione narrativa. Il vero locus del fantastico non è infatti il romanzo distopico, bensì il saggio utopico. E la ragione ultima di tutto ciò, per molti versi, viene magistralmente colta – con estremo realismo – da Joseph Conrad in una lettera del 1908 indirizzata proprio a Wells, in cui l’autore di Heart of Darkness rivolgendosi al collega osserva: «La differenza tra noi è fondamentale. Voi non volete bene all’umanità, ma pensate che debba essere migliorata. Io amo l’umanità ma so che non migliorerà».
Luca G. Castellin, Professore associato di Storia delle dottrine politiche, Università Cattolica del Sacro Cuore
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