di Dino Cofrancesco
Alessandro Campi e Stefano De Luca appartengono a quel ristretto gruppo di storici delle dottrine politiche che non si limita allo studio filologico delle opere dei grandi pensatori ma tiene sempre d’occhio la storia delle istituzioni, la scienza politica, il metodo delle scienze storico-sociali. Insieme hanno curato un volumone di 972 pagine, Il realismo politico. Figure, concetti, prospettive di ricerca che poteva essere pubblicato solo da Florindo Rubbettino, non nuovo a imprese del genere se si pensa ai due grossi tomi del Dizionario del liberalismo italiano.
Dar conto delle cinque parti in cui è suddiviso il libro, in questa sede, sarebbe impresa vana. Mi limito ad avvertire il lettore che l’opera può consultarsi come un utile dizionario del realismo politico che consente sia l’approfondimento dei concetti – che cos’è il realismo politico, quali sono i suoi rapporti con la geopolitica, il conservatorismo, il liberalismo etc. – sia la messa a fuoco degli autori inclusi nella categoria. Era inevitabile che in imprese del genere – sono ben 54 i collaboratori del volume – si trovassero dei contributi ineguali, sia per qualità che per lunghezza (quello di Michele Chiaruzzi su Martin Wight, interessante ma prolisso, sfiora le 40 pagine!) e che non pochi degli autori presi in considerazione suscitino qualche dubbio. Per fare degli esempi, era proprio necessario occuparsi di Platone, di Girolamo Savonarola, di Vincenzo Gioberti, di Ruggiero Bonghi, di Filippo Burzio, di Leo Strauss, dello stesso Antonio Gramsci così «realista» da pensare possibile da noi una rivoluzione proletaria nel primo dopoguerra? E, per restare in Italia, non si poteva pensare a Pasquale Turiello, a Giuseppe Maranini (ben noto a Campi), a Sidney Sonnino, a Guglielmo Ferrero così attenti alla «realtà effettuale»? Certo «elementi di realismo» possono trovarsi in tutti gli autori antichi e moderni: un pensiero politico che contenga solo giudizi di valore e progetti volti al futuro o al passato, sarebbe ricordato in una storia delle utopie ma sotto il profilo scientifico avrebbe ben poco da dirci.
Va riconosciuto, comunque, che i «realisti» presi in considerazione sono quelli giusti: citando alla rinfusa, Tucidide, Hobbes, i geopolitici, Reinhold Niebuhr, Zbignew Brrzesinski, i neoconservatori americani, Raymond Aron, James Burnham, Benedetto Croce, Gioacchino Volpe (analizzato con Croce nel saggio di Stefano De Luca fra i migliori del libro), Max Weber, Norberto Bobbio, Gianfranco Miglio. Vi sono nomi ricorrenti spesso – ad esempio Machiavelli, Burke, Morgenthau – ai quali, però, non è riservata una trattazione specifica mentre altri – ad esempio Tocqueville e Kissinger – vengono appena ricordati o neppure accennati – ad esempio Heinrich Treitschke. Alcuni interventi poi, talora di grande interesse, più che analisi del «realismo politico», sono riflessioni sulle sfide epocali del nostro tempo o ricostruzioni della loro genesi.
Comunque, lo ripeto, sono difetti inevitabili in un’impresa di così vasto e ambizioso respiro. Più interessante, invece, è riflettere sui problemi teorici sollevati dalla raccolta e analizzati soprattutto nei contributi di Pier Paolo Portinaro, di Angelo Panebianco, di Alessandro Campi, di Domenico Palano, di Francesco Raschi e Lorenzo Zambernardi. In che senso si può parlare di una tradizione neorealista? E quanti vedono in questo stile di pensiero non un approccio scientifico alla realtà ma un approccio ideologico volto a giustificare l’esistente, hanno ragione? E il realista deve considerarsi un gemello del conservatore o un parente stretto del liberale? Il realismo, per Portinaro, non è «una dottrina apologetica dell’assolutezza del potere» ma un utile, «formidabile antidoto al pensiero ideologico. Restituisce il giusto posto alla grammatica del concreto rispetto alla logica dell’astratto, agli imperativi dell’interesse rispetto a quelli della morale, alle ragioni degli uomini (mai interamente risolvibili nelle sintesi del collettivo) rispetto a quelle del diritto e delle leggi» Per Campi, realista è chi «chi preferisce avere i piedi ben saldi sul terreno, chi istintivamente diffida dalle promesse facili e dalle soluzioni troppo semplici, chi si interroga sulla natura autentica delle vicende cui assiste o che è chiamato ad analizzare, chi – per venire al punto che più ci interessa – ritiene più importanti gli elementi di persistenza, stabilità e continuità rispetto a quelli di mutamento».
Sembra giusto ma, in tal modo, il realismo non finisce per designare una «regola di prudenza», un invito a tener conto della resistenza delle cose e delle difficoltà incontrate dall’agire politico, condiviso anche da un illuminista pessimista come Norberto Bobbio? Sono incline a credere che se non si vuole ridurre il «realismo» ad un assennato consigliere del Principe – liberale, democratico o rivoluzionario che sia – occorre non dimenticare che esso (ri)nasce, in età moderna, con la riflessione sulla rivoluzione francese di Edmund Burke. Il vero realista è un critico implacabile dell’illuminismo razionalistico e cartesiano: non crede alle «magnifiche sorti e progressive» né adotta la divisa «indietro non si torna» (che giustifica tutte le violenze totalitarie). Il senso dei limiti invalicabili che incontra ogni intervento dell’uomo sul mondo e sull’ambiente e la credenza nella immutabilità della «natura umana», non ne fanno un teorico «per tutte le stagioni»: non è un progressista disincantato alla Bobbio («com’è bello il programma illuministico: peccato che sia così difficile da realizzare!»). Come tutti gli stili di pensiero, anch’esso mostra solo un lato di quella complessa realtà umana richiamata da Angelo Panebianco, quando invita a non imbalsamare il nucleo di verità che vi si contiene. Non imbalsamarlo, d’accordo, ma neppure diluirlo in liquidi che ne minacciano l’identità. È la lezione che si ricava da questo opus magnum.
*Articolo apparso su “Il Giornale” (Milano) del 18 agosto 2015.
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