di Federico Donelli
A distanza di tre settimane dall’uccisione del generale delle Forze Quds iraniane Qassem Suleimani la tensione in Medio Oriente si è gradualmente stemperata. L’attacco del drone statunitense e la conseguente rappresaglia iraniana, hanno costituito una lieve scossa di assestamento in un complesso di fragilità che coinvolge una molteplicità di attori, statali e non statali. Tralasciando l’ingiustificata isteria alimentata dai media nostrani, alcuni dei quali prefiguravano l’imminente scoppio di una Terza guerra mondiale, occorre collocare l’esecuzione mirata di Suleimani nel più ampio quadro di riconfigurazione dell’ordine regionale iniziato da oltre un decennio. Per meglio comprendere tali dinamiche occorre innanzitutto osservare il Medio Oriente ‘allargato’ – dal Pakistan al Marocco passando per il Golfo e il Sahel – come fosse una scacchiera, al cui interno i molteplici quadranti o scenari di crisi – Somalia, Yemen, Siria, Iraq, Libia, Afghanistan per citare i principali – rappresentano tante singole sfide dove ciascun attore può provare a riequilibrare l’equazione di potere a proprio vantaggio.
Il Medio Oriente, a causa di una permeabilità endemica, è un sistema multipolare aperto, ossia soggetto all’influenza di attori, di dinamiche e di processi ad esso esterni. Di conseguenza, negli ultimi quindici anni la regione ha risentito del cambiamento strutturale globale più di altre aree geopolitiche. A partire dall’amministrazione Obama, complice l’autosufficienza energetica che ha ridotto l’interesse strategico per il Golfo, gli Stati Uniti hanno smesso i panni di unico ‘security provider’, auspicando una maggiore ripartizione dei costi e delle responsabilità nella salvaguardia della stabilità regionale. Una politica che l’attuale presidenza Trump ha portato avanti accompagnandola con una diversa narrazione (dal ‘Pivot to Asia’ al ‘America first’) e che ha innescato un processo di rimescolamento degli equilibri di potere regionale. Nonostante ad oggi gli Stati Uniti rimangano la potenza predominante nell’area, negli ultimi anni si è assistito ad un progressivo slittamento di potere, una ridistribuzione che coinvolge una molteplicità di stakeholder: extraregionali e regionali. A ciò si aggiunga che l’atteggiamento ambivalente tenuto da Washington durante le settimane di protesta del 2011, ha scontentato tanto i regimi quanto coloro che affollavano le piazze delle principali città regionali chiedendo l’avvio di un nuovo corso democratico. In altre parole, dall’attacco in Afghanistan alla scelta di non intervenire in Siria, gli Stati Uniti hanno dilapidato un ingente capitale politico sia tra le élite sia tra le masse arabe.
Il vuoto di potere creato dal disimpegno statunitense è stato parzialmente colmato dalla Russia, in quanto potenza opportunista, e dalla Cina che opera come potenza strategica, ossia con una proiezione a lungo termine e non più circoscritta ai soli, tanti, interessi energetico-commerciali. A Mosca hanno saputo sfruttare le scelte statunitensi e l’esitazione europea per accrescere i rapporti con tutti gli attori regionali. A partire dal 2011 il presidente russo Putin ha sostenuto con convinzione e costanza le controrivoluzioni, in particolare la sopravvivenza del regime siriano di Bashar al-Assad giudicato strategico per la proiezione russa nel Mediterraneo. L’intervento militare russo in Siria nel 2015 ha avuto un duplice ritorno per Putin: di politica nazionale poiché ha consentito di presentare all’opinione pubblica il ritorno di una Russia forte e rilevante in diversi scenari internazionali, e di politica regionale poiché ha trasmesso il messaggio che Mosca, a differenza di quanto fatto da Washington con l’ex presidente egiziano Mubarak, sia disposta a sostenere i propri alleati indipendentemente dalle ripercussioni negative in termini reputazionali. L’atteggiamento mantenuto dalla Russia a sostegno del regime di al-Assad ha impressionato positivamente tutti i players regionali e in particolare gli stati del Golfo preoccupati dalle conseguenze che il graduale ritiro statunitense ha avuto e avrà sulla propria sicurezza. A partire dal 2011, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e in misura minore il Kuwait, hanno iniziato a ripensare la propria strategia di sicurezza seguendo un duplice binario: l’aumento delle capabilities (investimenti nel settore difesa) e dell’interventismo regionale da una parte, e la diversificazione dei partner in materia (non più solamente “Western-oriented”). Al momento, la Russia rappresenta l’alternativa più credibile, come ha dimostrato l’interessamento saudita per l’acquisto del sistema missilistico di difesa russo S-400. Simultaneamente all’avvicinamento con i paesi del Golfo, la Russia ha mantenuto salda la convergenza diplomatica con l’Iran, collaborando attivamente in Siria, e instaurato un rapporto di contrattazione continua e compartimentalizzazione con la Turchia mantenendo sempre una posizione di forza. In Medio Oriente la Russia non potrà soppiantare il peso sociale, economico e politico degli Stati Uniti, ma può permettersi di continuare ad utilizzare il proprio hard power a costi politici assai più ridotti di una liberal-democrazia occidentale, ottenendo in cambio capitale politico. In altre parole, in un contesto in cui la realpolitik sembra guidare le scelte dei diversi stakeholder regionali, statali e non statali, l’atteggiamento muscolare e a tratti spregiudicato della Russia l’hanno resa un interlocutore primario di tutti i paesi mediorientali, indipendentemente dalle rivalità e dai conflitti.
A differenza dell’interventismo russo, la Cina ha mantenuto la propria politica verso la regione, finalizzata allo sviluppo e al miglioramento delle relazioni politiche e commerciali con tutti gli attori regionali. Definita nel 2014 e conosciuta come la “1+2+3 Strategy”, l’agenda cinese per il Medio Oriente ha l’obiettivo di instaurare rapporti strategici cooperativi sulla base di tre pilastri: energia, investimenti e commercio. Al centro degli interessi di Pechino nella regione vi sono in particolare la Belt and Road Initiative (BRI, o nuova Via della Seta) e i rapporti in materia energetica. Nonostante la volontà cinese di diversificare il più possibile le fonti di approvvigionamento energetico, le importazioni dal Golfo sono cresciute ulteriormente negli ultimi anni, rendendo la regione di vitale importanza per l’economia di Pechino. Se le relazioni energetiche costituiscono il fulcro dei rapporti tra paese mediorientali e Cina, un nuovo fronte destinato ad allargarsi nei prossimi anni riguarda lo sviluppo della BRI. Seppure il percorso della nuova Via della Seta lambisca il Medio Oriente passando a Nord lungo l’asse Teheran-Istanbul e a Sud attraverso Aden, il Mar Rosso e Suez, viene considerato una grande opportunità per tutti i paesi regionali, in particolare il Kuwait e gli Emirati. Fino a questo momento l’approccio cinese alle rivalità e ai conflitti nella regione ha continuato a riflettere la logica del balance of power, ossia di evitare di ricercare special relationship, proxy o sfere di influenza ma, al contrario, di promuovere una rete di interdipendenze e partnership win-win. Alla base l’idea che lo sviluppo economico possa alimentare pace e stabilità nella regione. Per quanto appaia naïf, tale approccio ha consentito a Pechino fino ad oggi di mantenere fede alla propria impostazione verso le questioni politiche al di fuori dei confini cinesi, in linea a tre principi: equidistanza, non interferenza nelle questioni interne, e rispetto dei confini internazionali. I recenti sviluppi hanno indubbiamente messo alla prova la strategia cinese in Medio Oriente. Una eventuale escalation genererebbe un pericolo ai molti e crescenti interessi di Pechino nella regione, andando a ripercuotersi su un’economia che nei prossimi mesi dovrà scontare già l’effetto coronavirus. Per questo motivo, è ipotizzabile nei prossimi anni un deciso aumento della dimensione securitaria nei rapporti tra Cina e mondo mediorientale. Sviluppi che avranno ripercussioni tanto sulle dinamiche regionali quanto sui futuri equilibri globali.
A livello regionale, l’approccio dell’amministrazione Obama (offshore balancing) ha contribuito ad alimentare una nuova guerra fredda mediorientale caratterizzata dalla proliferazione di identità settarie sempre più aggressive. Il ‘fragile state’ iracheno diventò il primo terreno di scontro tra due blocchi guidati rispettivamente dall’Iran (asse sciita) e dall’Arabia Saudita (asse sunnita), delineando i caratteri di un nuovo equilibrio bipolare per la regione. Oltre alle differenze confessionali, la cui securitizzazione avrebbe prodotto nel tempo il processo conosciuto come ‘settarianizzazione’, la principale frattura tra i due blocchi riguardava l’approccio nei confronti del sistema regionale. Il blocco arabo era dominato da paesi orientati al mantenimento dello status quo, ostili al cambiamento politico e sospettosi dell’espansionismo iraniano. Al contrario, il blocco sciita nutriva una profonda sfiducia nei confronti dell’Occidente e dei suoi alleati regionali, coltivando l’ambizione di esportare in tutta la regione i principi della rivoluzione khomeinista. In questo clima di tensione, l’ondata di proteste che ha attraversato la regione nel 2011 ha messo in luce la fragilità dell’ordine regionale, favorendo l’ascesa di nuovi attori (Qatar) e potenze tradizionali (Turchia) da tempo in cerca di una maggiore centralità. Tra gli effetti delle rivoluzioni e delle successive contro-rivoluzioni, la frattura della precedente polarizzazione bipolare – Asse arabo-sunnita vs Asse sciita – e l’emergere di un terzo polo quello turco-qatariota. Da allora questi tre poli competono nel tentativo di affermare una leadership regionale e con l’obiettivo di riconfigurare il nuovo ordine mediorientale secondo le proprie preferenze. Evitando lo scontro diretto, i player regionali più attivi (Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Iran) intervengono in contesti segnati da fragilità e crisi, servendosi del supporto sul terreno di attori non statali per procura, in alcuni casi del proprio esercito e giocando di sponda con le potenze extraregionali.
*Articolo Pubblicato su Open Luiss
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