di Francesco Coppola
Da un governo tecnico ci si aspetta, per definizione, rigore, trasparenza e serietà. Non ci si aspetta invece che inclini alla demagogia e che assecondi i cattivi umori dominanti nella società cosiddetta civile.
Prendiamo ad esempio la decisione di rendere pubblici – alla portata di ogni cittadino – i compensi e le situazioni patrimoniali di ministri e sottosegretari. Si è trattato di una misura apprezzabile e condivisibile, in linea con quel che accade nelle democrazie più avanzate del mondo. Chi ricopre incarichi politici al massimo grado è tenuto a rendere conto, non solo dei propri comportamenti privati e pubblici, ma anche della propria situazione economica. Non per compiacere la curiosità morbosa di chi ama farsi gli affari altrui, ma perché la politica deve essere, nei limiti del possibile, un cristallo trasparente. È giusto sapere quanto e come guadagna chi ci governa, anche per evitare gli spiacevoli conflitti di interesse e le opacità che nel recente passato hanno riguardato molti esponenti politici.
Meno convincente – anche se all’apparenza sulla stessa linea – appare invece l’idea di stabilire un tetto ai compensi degli alti funzionari e burocrati dello Stato, i cui emolumenti sono stati anch’essi resi noti attraverso i giornali. Molti si sono scandalizzati nell’apprendere, ad esempio, che il capo della Polizia Antonio Manganelli (nella foto) ha un reddito di oltre seicento mila euro l’anno, o che ci sono capi di ministero, direttori generali di enti, autorità e società pubbliche che guadagnano tra i trecentomila e il mezzo milione di euro. La volontà del governo, giustificata dalla situazione di crisi che vive il Paese e dai sacrifici che sono stati chiesti agli italiani, è di imporre un tetto ai compensi dei funzionari pubblici nella misura massima di 294mila euro (che è quanto viene corrisposto al primo presidente della Corte di Cassazione).
Messo in questi termini, iI ragionamento non sembra fare una grinza: in un Paese i cui lavoratori hanno gli stipendi più bassi d’Europa, i “grand commis” dello Stato sembrano in effetti guadagnare troppo. E dunque bisogna riequilibrare verso il basso le retribuzioni di questi ultimi. In realtà, viene da obiettare, sarebbe meglio alzare gli stipendi dei primi. Ma non è questo il punto.
Il punto è che questa girandola di cifre e numeri che da giorni si legge sui giornali (e tutti a chiedersi se si tratti di compensi lordi o netti, e se per caso non ci siano altre fonti di reddito che non sono state dichiarate) rischia non solo di alimentare risentimento e invidia sociale, ma anche di far perdere di vista il vero problema.
Il male della burocrazia italiana, infatti, non è rappresentato dai guadagni stratosferici di chi la dirige (che in effetti appaino superiori a quelli dei loro colleghi europei). E’ invece rappresentato dalla mancanza di verifiche e controlli sulla qualità del lavoro che viene svolto, da una mentalità livellatrice che mortifica il merito individuale, dalla inamovibilità di coloro che operano al suo interno. Ciò che manca, come dicono gli esperti, è la “cultura del risultato”: da quest’ultima dovrebbero infatti dipendere i compensi dei manager di Stato, non come oggi avviene dagli automatismi amministrativi.
Ciò significa che si possono anche abbassare i compensi degli alti burocrati fissando una soglia massima uguale per tutti, se lo stato di crisi dell’Italia lo richiede, ma non è con l’appiattimento salariale che si migliora in prospettiva il funzionamento della macchina pubblica nazionale. Al contrario, bisognerebbe prevedere compensi, riconoscimenti in denaro, promozioni e gratifiche per chi – messo a capo di un ente o di un’organizzazione, dal quale spesso dipendono migliaia e migliaia di persone e discendono grandi responsabilità – ottiene i traguardi fissati, consegue risultati brillanti e migliora la qualità dei servizi prestati ai cittadini.
Lavorare per lo Stato – secondo il costume protestante del nord Europa – vincola alla probità. In Italia, una volta, l’impiego nella cosa pubblica era considerato, non tanto e non solo remunerativo, quanto socialmente onorevole. Si può dunque sostenere che lo Stato non debba essere paragonato ad una’azienda privata i cui dirigenti vadano trattati, dal punto di vista economico, secondo i valori di mercato. Ma non si deve nemmeno commettere l’errore di far scappare dalla pubblica amministrazione verso il settore privato gli uomini più capaci e tecnicamente preparati. Già si è capito che il tetto ai compensi non potrà essere applicato alle aziende controllate dallo Stato (Eni, Enel, Finmeccanica, ecc.), a meno di non accontentarsi che a guidarle siano manager di seconda scelta. Ma anche applicati ai vertici dell’apparato pubblico, in modo uniforme e indiscriminato e sulla base di un livello massimo unico, i tagli rischiano di essere una misura poco più che simbolica dal punto di vista del bilancio pubblico e inutilmente dannosa dal punto di vista del buon funzionamento dello Stato.
La parola magica di un governo tecnico – rivoluzionaria per un Paese ingessato come l’Italia – dovrebbe essere in realtà “meritocrazia”: ovunque e a tutti i livelli, a partire ovviamente dalla macchina amministrativa pubblica. Il che significa non retribuire tutti allo stesso modo, secondo il grado, il ruolo o l’anzianità, ma pagare di più (anche molto, se è necessario) chi lavora meglio e con più risultati. Sembra invece di assistere, in queste ore, ad una sorta di meschina vendetta del politico sul burocrate: chi sino a ieri veniva additato come un membro di una casta privilegiata può oggi indirizzare l’indignazione del popolo su un altro bersaglio.
Per concludere. Accettiamo pure l’idea che, stante la crisi economica, tutti debbono fare sacrifici e dare il buon esempio, a partire dai piani alti della politica e dello Stato. Ma se passa il convincimento – culturalmente ed economicamente errato – che riducendo gli stipendi di tutti un giorno staremo tutti meglio, forse avremo soddisfatto la nostra sommaria ansia di giustizia, ma certo non avremo fatto un passo in avanti sulla strada della crescita e dello sviluppo.
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