di Alessandro Campi
La politica, come la realtà, è sempre più originale e imprevedibile di coloro che la interpretano e commentano. Dopo aver immaginato, in virtù di alcuni sondaggi, un testa a testa elettorale tra Grillo e Renzi, arrivando a confondere lo scontro mediatico tra i due con il loro consenso effettivo nel Paese, abbiamo scoperto che il primo vale alle urne la metà del secondo e che la loro distanza percentuale è di venti punti. Un abisso imprevisto che avrebbe fatto saltare dalla gioia chiunque. Ciò che invece ha colpito è la relativa compostezza con cui il Presidente del consiglio ha accolto il dato a suo favore. Nessun giubilo pubblico o esibizionismo fuori posto, in linea con la sua proverbiale esuberanza, ma il tono pacato che si addice a chi ha enormi responsabilità di governo da assolvere e molti ostacoli ancora da superare. La vittoria è stata grande, ma ancora più grandi sono i problemi del Paese. Che è poi la ragione per cui Renzi ha subito chiuso ad ogni ipotesi di elezioni anticipate, che sulla carta gli converrebbero, ma che non sono nell’interesse dell’Italia.
Il fatto veramente nuovo che le cifre del Pd testimoniano, entrando nel gioco dell’analisi, è la nascita potenziale di un nuovo soggetto politico. La trasmutazione politico-antropologica della sinistra avviata da Renzi si era limitata sinora allo stile comunicativo, all’immagine, al programma e all’organizzazione del partito. Mancava un riscontro elettorale, per capire quanto fosse fondata e praticabile l’idea di dare alla sinistra post-comunista una nuova base sociale e territoriale, svincolata dai confini tradizionali (il pubblico impiego, i pensionati, le cooperative, il sindacato, il tutto concentrato nell’Italia di mezzo cosiddetta “rossa”).
Renzi ha effettivamente conquistato nuove fasce di elettori. Ha strappato a Grillo una quota di voto antipolitico, ha portato dalla sua gli artigiani e le partite iva del Nord-est che un tempo votavano Lega o Berlusconi, ha fatto breccia tra i giovani disoccupati come tra i professionisti, ha letteralmente prosciugato il centro e offerto una casa ai moderati delusi. Il Pd è il primo partito ovunque in Italia, avendo acquisito un consenso trasversale e diffuso. Ha incluso e inglobato senza peraltro perdere nulla alla sua sinistra. Resta da capire se molti italiani si siano affidati a Renzi per convinzione o solo per disperazione, per fiducia e simpatia nell’uomo (il che significherebbe che questo Pd si riassume nella persona fisica di Renzi) o per apprezzamento del suo progetto politico rinnovatore. Solo il tempo dirà se è nato quel partito liberal-riformista, democratico e veramente a vocazione maggioritaria, che non poteva nascere finché a guidare il Pd erano gli eredi del comunismo.
Grillo è lo sconfitto, ma va detto che se non ci fosse stato il precedente delle politiche del febbraio 2013, avremmo oggi gridato all’evento per quel 21,1%. La rabbia degli italiani, sulla quale ha investito tutto in campagna elettorale, è evidentemente inferiore alla loro capacità di sopportazione e al loro buonsenso. Messi dinnanzi alla possibilità di sfasciare tutto, senza avere chiaro che cosa costruire sulle macerie del vecchio, si sono ritratti impauriti e si sono affidati all’unica offerta politica che avesse il sigillo della plausibilità.
Ciò detto, i consensi grillini sono ormai qualcosa di solido e strutturale: c’è un quarto scarso degli italiani votanti che vive ormai la politica con un misto di intransigenza e furore, che spera nella tabula rasa e nella resa dei conti verso il prossimo, inseguendo il miraggio di una democrazia integrale, trasparente e dal basso, che ha come suo garante e interprete un tribuno-profeta. La democrazia italiana dovrà convivere probabilmente a lungo con chi ne disprezza le istituzioni, le prassi e gli attori, nel nome di una purezza che non ammette compromessi.
Nel caso del centrodestra non si può parlare di sconfitta, ma della lenta (e inarrestabile) consunzione di un blocco politico che alle divisioni interne, politiche e personali, aggiunge la mancanza di un progetto credibile. Già si riparla di riunire le membra sparse del moderatismo sotto forma di una coalizione elettorale in vista delle prossime elezioni politiche. Ma una sommatoria algebrica, calcata sull’intuizione berlusconiana di vent’anni, difficilmente può produrre un totale politicamente efficace. Berlusconi ha perso la capacità a tenere tutti insieme che lo ha sempre contraddistinto, è anzi diventato lui stesso un fattore di divisione. Le strade dei singoli sembrano poi essersi troppo divise per potersi riunire: la Lega ha scelto di fare il verso a Marine Le Pen, il Ncd di appoggiare Renzi, il Cavaliere di fargli l’opposizione, gli ex-An di tornare allo spirito militante e antisistema del passato (peraltro senza fortuna). La legge elettorale può costringere a mettere insieme le forze per racimolare qualche seggio in più, ma non può trasformare un’armata senza idee in un soggetto politico credibile e vincente. Si annuncia per il moderatismo italiano una lunga traversata nel deserto, che implica un cambio radicale di uomini e strategie, che a sua volta deve tenere conto di come siano cambiate le geometrie della politica italiana rispetto al recente passato.
L’azzeramento dei centristi (col dissolvimento definitivo del montismo e, con ogni probabilità, del mito dei competenti al governo) sta lì del resto a confermarlo. Il centro, luogo topico della mediazione e dell’attendismo tattico, non esiste elettoralmente più. Ma non ci si sono più nemmeno la destra e la sinistra in senso classicamente europeo: popolari vs socialisti. Accanto ai grillini, che inglobano arrabbiati d’ogni colore politico o senza colore politico, ci sono i democratici di Renzi (una forma di moderatismo progressista, che punta a coniugare pragmatismo e innovazione, senza fanatismi ideologici), anch’essi una forza a vocazione trasversale, e un partito, Forza Italia, che vive ormai solo degli umori, dei ricordi, delle idiosincrasie dell’uomo che l’ha fondato e lo possiede. Sono questi i soggetti, fortemente personalizzati e diversamente eccentrici, che al momento coprono l’80% dell’offerta politica nazionale. Questa è l’Italia uscita dal voto, ancore una volta sgangherata e anomala, ma almeno con un governo che non rischia scossoni e con la speranza che qualche riforma possa finalmente essere realizzata. Consoliamoci e speriamo.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 27 maggio 2014.
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