di Luca Falciola

Il piano pluriennale di liquidazione della lingua italiana nell’università italiana sta marciando a pieno ritmo e, di questo passo, nel giro di qualche anno, avremo finalmente estirpato dai nostri atenei l’antica e ostinata favella, già dello sconcio Boccaccio e del tristissimo Leopardi. Parlata obsoleta e ostacolo al ‘parlar chiaro’, essa sarà finalmente sostituita da una lingua franca, moderna e asettica, igiene del pensiero e della comunicazione. Così annunciava un cinegiornale del 2012.

La faccenda – scherzi a parte – pur lasciando intravedere scenari certo meno catastrofici e meno orwelliani, è sicuramente molto seria e attuale. Negli ultimi mesi, infatti, l’internazionalizzazione ‘forzata’ dell’università italiana sembra accelerare con sicuro ottimismo, mentre per la lingua italiana si annunciano tempi duri e destini incerti. Workshop in inglese spuntano come funghi, conferenze e talk ormai sono di preferenza in inglese (anche se relatori e uditorio sono italiani puro sangue, che con la lingua del vecchio William hanno sempre bisticciato), la tesi di dottorato, beh, meglio se non la scrivi in italiano, gli articoli sui journal – ivi compresi quelli italiani – sono sempre più in inglese, ecc, ecc. Se all’Università Bocconi sette corsi di laurea magistrale su dieci sono ormai in inglese, anche alla più tradizionalista Cattolica se ne contano già tre e in molte altre università della penisola impazza la corsa al modulo in inglese. Last but not least, qualche giorno fa il rettore del Politecnico di Milano ha dichiarato, con prevedibile orgoglio, che dal 2014 lezioni delle lauree magistrali e dei dottorati saranno svolte interamente in lingua inglese, con materiale didattico redatto in inglese: l’italiano verrà insomma definitivamente abbandonato come strumento di comunicazione in uno degli atenei di spicco del paese.

Nel frattempo, come sanno tutti coloro che bazzicano per l’accademia, nel giugno dell’anno scorso l’ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) ha diffuso i Criteri e parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell’abilitazione scientifica nazionale. Il documento – assieme alla glossa pubblicata un mese dopo – espone le linee guida che dovranno essere rispettate per la scelta del personale docente che, in futuro, rappresenterà il cuore – sorry, il core – dell’università italiana. Ebbene, in questo testo fondamentale – lo rammento per i non addetti ai lavori – la scelta in favore dell’internazionalizzazione è così marcata che rischia di penalizzare fortemente coloro i quali, per varie ragioni (anche disciplinari), hanno pubblicato testi scientifici soprattutto in lingua italiana. Non mi attardo sulla contabilità dei punteggi per la valutazione, che attribuiscono, ad esempio, agli articoli lingua straniera e pubblicati su riviste internazionali più valore di un’intera monografia in italiano, poiché hanno già fatto discutere i diretti interessati, senza risolvere alcunché e senza sfiorare il nocciolo della questione. Sottolineo, invece, che la formazione di qualità, così come la capacità di fare ricerca ad alto livello e di insegnare in Italia, saranno valutate in larga misura sulla base dell’abilità nell’esprimersi in lingua straniera e, per converso, sulla base del grado di emancipazione dall’italiano.

Ora, come credo sia chiaro, la questione è che la verticale perdita d’utilità, di funzionalità – d’importanza? – della lingua italiana non riguarda più soltanto la maggior parte delle professioni e dei commerci che abbiano una minima dimensione internazione (come oggi sanno anche i bambini), ma riguarda ormai, in proporzioni non più trascurabili, anche uno dei luoghi principali di costruzione del patrimonio culturale nazionale. E, tutto ciò, con effetti sulla conservazione e sulla trasformazione della nostra identità e della nostra eredità storica che non riusciamo a prevedere e che ci rifiutiamo (almeno per ora) di discutere.

Prima che sia troppo tardi, prima che qualunque lettore dotato di buonsenso mi sotterri di critiche e mi tacci giustamente di oscurantismo e di sciovinismo, faccio una precisazione. L’università italiana – non sono certo il primo ad affermarlo e men che meno il più autorevole – ha bisogno come l’ossigeno di internazionalizzarsi. Soffre, asfittica, di tutti i mali peggiori della chiusura endogamica: dal provincialismo al nepotismo, dal solipsismo all’esclusione dai dibattiti internazionali. Per vincerli, ha un disperato bisogno di aprirsi, di comunicare con l’esterno (con una lingua franca qualunque, oggi l’inglese, domani chissà), di dialogare, di accogliere stranieri e di diffondere i risultati della propria ricerca scientifica ad una comunità più vasta. Ha bisogno di farsi conoscere non soltanto sotto forma di cervelli in fuga, ma anche come realtà che pensa bene e funziona con efficienza e che non ha bisogno fatalmente di scappare. Ben vengano, dunque, normative che costringono, anche dolorosamente, a fare i conti con il resto del mondo. Ben vengano pure le terapie d’urto e la messa in discussione di curricula un tempo garantiti e assicurati. Ben vengano gli sforzi che gli atenei e i ricercatori più volenterosi stanno oggettivamente sostenendo per sprovincializzarsi.

Ma – e qui torno alla mia preoccupazione – alla fine di questa palingenesi, che fine farà l’italiano? La domanda – certo disarmante, forse oziosa – rimane inevasa e non solleva alcun dibattito pubblico. L’Italia, a pochi lustri dall’abbandono dei dialetti per il miraggio di una lingua comune, già annuncia e pratica l’eutanasia di quest’ultima, almeno in ambito accademico. E nessuno ne discute. Chissà Pasolini – «il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà» – come reagirebbe a questa ulteriore perdita di ancoraggio dell’uomo al proprio territorio e alla propria storia. D’accordo, non è detto che la trasformazione sia irreversibile e totalizzante. D’accordo, rimarranno le fortezze tricolori delle facoltà di Lettere. D’accordo, l’italiano al di fuori degli atenei non s’inaridirà fino disseccarsi e a scomparire. Ma, pare legittimo chiedersi che destino avrà il nostro idioma, tanto blasonato eppur negletto: lingua fossile da studiare come il latino? Lingua solo letteraria? Lingua gastronomica? Lingua fashion? Lingua del lusso (per dare il nome alle borse made in China?), Lingua dell’amore?

Tra l’altro, non va trascurato il fatto che, ai giovani, lo studio delle belles lettres italiche, il labor limae sulla scrittura, così come l’affinamento logico e terminologico offerto dal latino e dal greco, sembreranno sempre più un colossale spreco di tempo. Il Liceo classico, architrave dell’educazione umanistica italiana, sembra così destinato ad assomigliare ad una follia anacronistica, buona per gli archeologi del sapere e per i nemici del progresso. Certo, agli americani piace ancora sentirti citare il latinorum, ma se non sai l’inglese…

Porsi questi interrogativi, ovviamente, non presuppone il fatto che esista una risposta univoca, che sia possibile trovarla, né tanto meno che sia arginabile un processo di così larga scala, che ora si manifesta apertamente ma che è in gestazione da anni. Probabilmente, né i linguisti né i futurologi più avveduti potrebbero fornire soluzioni convincenti. Eppure, credo che la questione, diversamente da quanto sta accadendo, meriti di essere dibattuta: sarebbe un segno di civiltà, una prova di sensibilità culturale e politica. Non per condurre battaglie di retroguardia, in nome di un nazionalismo donchisciottesco, ma per capire – e magari governare – la rotta del bel paese, «là dove ‘l sì»…suonava.

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)