di Davide Parascandolo
Nuove atroci violenze stanno sconvolgendo il Sud Sudan, una terra già martoriata da una guerra civile ultraventennale conclusasi con la proclamazione, il 9 luglio del 2011, dell’indipendenza da Khartoum, raggiunta dopo un referendum tenutosi nel gennaio dello stesso anno e previsto dal Comprehensive Peace Agreement siglato nel 2005. Gli scontri al vertice del potere vedono confrontarsi le fazioni del presidente in carica Salva Kiir Mayardit e del destituito vicepresidente Riek Machar Teny, licenziato lo scorso luglio. Già molto alto è il numero delle vittime e degli sfollati, ma a destare sconcerto è il rinvenimento delle prime fosse comuni, segno che il conflitto sta rapidamente degenerando lungo dei cleavages etnici, con i Dinka, cristiani, tendenzialmente a sostegno di Kiir, e i Nuer, musulmani, dalla parte di Machar. Con una risoluzione, l’Onu ha previsto un rafforzamento della missione di pace UNMISS già presente nel Paese, mentre dal 5 gennaio stanno avendo luogo ad Addis Abeba i primi colloqui tra i due schieramenti, resi al momento infruttuosi dal rifiuto di Kiir di liberare undici prigionieri politici Nuer vicini ai ribelli.
La situazione sembra essere precipitata la sera del 15 dicembre, durante una riunione dei dirigenti del SPLM (Sudan People’s Liberation Movement), di fatto l’unico partito del Paese. Nel corso dell’incontro, in un’atmosfera molto tesa, intimorito dall’eventualità di un imminente golpe, Kiir avrebbe ordinato il disarmo della sua guardia presidenziale, il Tiger Battalion (Battaglione Tigre), composto sia da Dinka che da Nuer, salvo poi riarmare solo i primi. La reazione dei Nuer ha portato all’esplosione dei rancori tra le due comunità e lo scontro si è esteso all’intero Paese. Tuttavia, il conflitto in corso non può essere etichettato come un mero conflitto etnico; il processo di etnicizzazione sembra derivare piuttosto da una strumentalizzazione politica alla cui radice si nascondono enormi interessi economici. In effetti, gli schieramenti non si dividono in maniera nitida in base a mere linee etniche. Basti notare che Machar è appoggiato anche da alcuni esponenti Dinka, tra cui Rebecca Nyandeng de Mabior, a capo della delegazione di Machar ai negoziati in Etiopia e vedova del fondatore del SPLM John Garang, scomparso in circostanze sospette nel 2005 a seguito di un incidente in elicottero, del quale la vedova continua a ritenere responsabili l’attuale presidente Kiir e il presidente ugandese Museveni, uno degli attori in gioco cui fanno gola le enormi riserve di greggio esistenti nel Paese.
Non a caso, i principali focolai di guerra interessano le aree più ricche di risorse energetiche e, in particolare, le regioni dello Jonglei, dell’Upper Nile e dello Unity, dove sono ubicati i maggiori giacimenti petroliferi del Sud Sudan. Città attualmente contesa è Bentiu, proprio nel cuore dello Unity State, da poco tornata sotto il controllo dell’esercito governativo. Altro centro chiave, per il momento ancora nelle mani dei ribelli, è la città di Bor, capitale dello Stato dello Jonglei e sede di riferimento delle Nazioni Unite. Capitale dell’Upper Nile è invece la città di Malakal, per fuggire dalla quale, il 12 gennaio, oltre duecento civili sono morti annegati nel Nilo Bianco dopo l’affondamento del barcone sul quale si erano imbarcati (secondo altre fonti sembra invece stessero fuggendo proprio da Bor). In questo contesto, le divisioni etniche sono sfruttate dal potere politico e militare allo scopo di consumare una lotta di potere tutta interna al SPLM finalizzata ad accaparrarsi il controllo di immense risorse funzionali agli interessi non soltanto dei vertici sud sudanesi, ma anche delle multinazionali e di altri soggetti esterni, USA e Cina in primis. Appetiti che investono anche Khartoum, il cui presidente Omar al Bashir (oggetto di un mandato di cattura spiccato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità in relazione ai massacri perpetrati in Darfur) si è prontamente recato a Juba il 6 gennaio. Lo scopo del viaggio, ufficialmente, ha riguardato gli sforzi per favorire il raggiungimento di un accordo tra le parti, ma la presenza di vari ministri e funzionari al seguito, tra cui il ministro del petrolio, dà adito a pensieri non proprio edificanti sulla reale finalità della visita.
Tra Khartoum e Juba attriti e tensioni non sono mai cessati. Una prima guerra civile sconvolse il Paese già dal 1955 al 1972, per interrompersi a seguito della concessione a favore di Juba di una larga autonomia. La successiva revoca di quest’ultima comportò lo scoppio di una seconda e cruenta guerra civile che si è protratta dal 1983 al 2005. Ma gli scontri militari sono proseguiti senza sosta anche dopo l’avvenuta secessione. Il Sud Sudan è un Paese estremamente povero ed è economicamente dipendente dalle esportazioni di petrolio. Pur controllando l’85% delle aree di estrazione, le raffinerie e gli oleodotti sono però presenti solo nel Nord, e frequenti dispute sorgono sull’entità delle quote relative alle tasse doganali che il Sudan esige per il transito del petrolio sul suo territorio, greggio che viene poi raffinato a Port Sudan, sul Mar Rosso. Khartoum ha peraltro un estremo bisogno di tali ricavi, dovendo finanziare il proprio esercito impegnato contro i ribelli interni che imperversano in Darfur, nel Sud Kordofan e nella regione del Nilo Azzurro.
I due Paesi si contendono inoltre la ricca regione dell’Abyei, grande quanto il Libano, che un recente referendum aveva assegnato al Sud Sudan, esito però invalidato dalla stessa Unione Africana. Pertanto, la regione rimane attualmente sotto la giurisdizione di Khartoum, ma Juba continua a rivendicarne il controllo. D’altra parte, i più estesi giacimenti di petrolio sono situati proprio lungo l’instabile frontiera tra i due Paesi, con confini ancora indefiniti. E in agguato, oltre agli Stati Uniti, che delegano il diretto intervento sul campo proprio all’Uganda di Museveni, c’è sempre la Cina, che ha già prontamente inviato nel giovane Stato africano peacekeepers e tecnici petroliferi, considerando il suo status di maggiore investitore petrolifero nel Paese. Peraltro, sono stati proprio gli Stati Uniti, sostenuti da Israele e dagli alleati del Golfo, ad appoggiare la secessione sud sudanese in chiave anticinese (Khartoum aveva ed ha tuttora stretti legami con Pechino). L’indipendenza, dunque, più che una liberazione, sembra aver ingabbiato il Sud Sudan in un gioco di interessi economici smisurati che, lungi dal dirottare le ingenti risorse di quest’area dell’Africa a beneficio di una popolazione poverissima, permette ad attori disparati di seguitare a dilaniare un Paese appena uscito da interminabili decenni di brutalità.
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