di Antonio Campati*
Le cronache degli ultimi giorni hanno riportato in prima pagina una parola che, utilizzata nei modi più disparati, periodicamente riappare carica del suo alone di mistero e, spesso, di negatività: lobbying. Da anni, in Italia, l’attività svolta dalle lobby viene derubricata a tutto quell’insieme di attività, di interessi, di pressioni che hanno come obiettivo quello di bloccare propositi di innovazione, affievolire aneliti di liberalizzazione nella gestione dei servizi, impedire l’approvazione in sede legislativa di provvedimenti che potrebbero colpire rendite salde e influenti.
In realtà, la confusione in questo campo è tanta: non solo per la facilità con la quale si utilizzano, interscambiabilmente, parole come, appunto, lobby, gruppi di pressione, gruppi di interesse, minoranze oligarchie e così via, ma per un mancato sforzo di regolazione delle attività di lobbying. Per simili ragioni è senza dubbio utile la lettura di un recente contributo offerto da Francesco Galietti (Alta pressione. Perché in Italia è difficile regolare le lobby, Marsilio-formiche, 2011, pp. 84, euro 8,00): un’agile riflessione che dopo aver chiarito quali possono essere, a precise condizioni, le potenzialità del lobbying, ne analizza la prassi all’interno del nostro paese (anche con un breve confronto con altre realtà nazionali) evidenziandone i paradossi e le difficoltà; ma, soprattutto, definisce alcune precise aree di intervento per «varare poche regole ma operativamente importanti» (p. 79) che sistematizzino i luoghi e i processi del lobbying stesso.
L’Autore, nell’indicare il «fare lobbying» come l’«interfacciarsi con chi matura decisioni a rilevanza pubblica, confrontarsi con lui difendendo le proprie posizioni e argomentazioni, formulando proposte e controproposte» (p. 19), sottolinea, però, che, nel tentare una legislazione ad hoc, si corre il rischio di scrivere regole a metà. Soprattutto se, riprendendo la definizione di rappresentanza offerta dal Green Paper of the European Transparency Initiative redatto dalla Commissione europea nel 2006 dove questa è riferita a «tutte le attività svolte con l’obiettivo di influenzare la formazione delle politiche pubbliche e i processi decisionali delle istituzioni europee», si include tra i soggetti attivi «chiunque si interessi di politiche pubbliche al di fuori delle istituzioni, ogni luogo pre-politico di formazione di idee e proposte» (p. 20) e quindi anche centri studi e think tank, associazioni, sindacati, liberi professionisti, studiosi di scienze economico-sociali, e portavoci di singole imprese.
In un quadro così ampio, definire in Italia i soggetti attivi è, per Galietti, «impresa impervia» e specifica questa amara constatazione descrivendo tre vistose anomalie, tipiche della nostra realtà, riscontrate nello studio sulle lobby: la prima è di tipo «quantitativo» e richiama la mancanza di un dibattito nel Governo e nel Parlamento altrettanto fitto quanto quello che viene coperto dai media; la seconda è «esistenziale»: affianco alle regole, c’è chi invoca la creazione di un apposito ordine professionale o comunque di una forma di legittimazione; e infine, la terza è di carattere «qualitativo»: sul lobbying e su una sua eventuale regolazione si scrive molto ma soffermandosi sempre attorno ai soliti temi (pp. 47-49).
Su quest’ultimo passaggio, l’Autore riscontra non solo una carenza di analisi specifiche, ma indica come un errore il voler “trapiantare”, per usare una sua espressione, modelli consolidati in realtà estere nella legislazione nazionale, un atto non solo impossibile, ma addirittura controproducente (p. 76). Infatti, in un contesto come il nostro, dove il dibattito governativo e parlamentare su un eventuale quadro legale da dare al lobbying si caratterizza per una «forte ciclicità» (p. 35), la soluzione diviene ancora più ardua quando si toccano le corde (deboli) che intrecciano l’influenza nella formulazione delle politiche con le strutture dei processi di rappresentanza e decisione delle istituzioni, in particolare con il ruolo e le funzioni dei partiti politici e dei sindacati (pp. 72-74).
Nonostante tutta una serie di ostacoli, la regolazione delle lobby appare una necessità, ma, come sottolinea lo stesso Galietti, deve essere fatta bene. In altre parole, il lobbying può essere utilissimo per scrivere leggi migliori, vagliare contributi diversi, snellire le procedure di collegamento con la società civile, tuttavia necessita inderogabilmente di «confini netti e solidi principi» (p. 75). E quindi, bastano «poche regole, semplici e chiare»: una prima bozza delle quali appare già nel «finale ancora non scritto» del libro che non ha la presunzione di riformare radicalmente il settore delle relazioni istituzionali, ma di segnalare il sorgere di «un’idea diversa di lobbying».
*fellow Centro Studi Tocqueville-Acton
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