di Fabio Massimo Nicosia
L’universo che si definisce “libertario” è variegato. In questa sede ci occupiamo del ‘paleolibertarismo’, filone nato negli anni Novanta, quando Rothbard rompe con il Partito Libertario, per insofferenza verso l’atteggiamento ‘alternativo’ e ‘controculturale’ di molti attivisti.
Il paleolibertarianism si colloca quindi a destra dello spettro libertario.
I “paleo” si caratterizzano per l’adesione al mondo cattolico, sul presupposto che il Cattolicesimo possa rinforzare la teoria libertaria fornendogli un sostegno culturale e anche metafisico. Da parte sua il libertarismo di scuola austriaca potrebbe dare un contributo alla dottrina sociale della Chiesa, rendendola meno vaga e più cosciente del rapporto tra libertà economica e dignità umana.
Tale impostazione, come ricorda Guglielmo Piombini in un’intervista al sito del “Movimento libertario”, è giunta addirittura a rivalutare, con Hans-Hermann Hoppe, alcuni aspetti di “moderazione” delle monarchie tradizionali rispetto alle democrazie moderne, e indica nello statalismo welfarista il vero distruttore dei legami comunitari tradizionali.
Per Piombini, gli autori controrivoluzionari come Carl Ludwig von Haller sono più vicini al libertarismo del pensiero liberaldemocratico, che si è illuso che fosse possibile limitare il potere mediante congegni (lo ‘Stato di diritto’, il costituzionalismo, la divisione dei poteri, le elezioni) rivelatisi in buona misura inefficaci. Al pari di un anarco-individualista come Lysander Spooner, Haller giudicava del tutto assurda l’idea di contratto sociale: nessuno l’ha mai firmato, per la semplice ragione che nessuno sarebbe così pazzo da firmare una procura che contempli un “mandato non imperativo” a disporre della propria vita, libertà e proprietà.
Orbene, Piombini ipotizza un matrimonio di interesse tra paleo-libertarianism e Chiesa cattolica. Non tutti i matrimoni di interesse funzionano però come le parti, o una di esse, avevano previsto, perché mentre i paleo-libertarian sono ormai in blocco dei papa boys, la Chiesa non sembra attratta dalle idee radicali sul libero mercato, e non passa giorno che le gerarchie non inneggino allo stato sociale e alla stessa libertà di immigrazione. Piombini respinge le accuse di xenofobia, e tuttavia egli è giunto ad affermare che l’immigrazione dovrebbe essere ammessa solo se il datore di lavoro (come se non possano esservi immigrati lavoratori autonomi) costruisce quartieri destinati ai soli dipendenti immigrati, i quali non possono uscire dal quartiere per non violare i supposti diritti di proprietà (pubblica) degli altri residenti; ma questo si chiama apartheid!
Piombini scopre poi che il pensiero libertario deve più al reazionario Haller che alla cultura delle rivoluzioni, solo perché Haller riteneva assurda la teoria del contratto sociale. A parte che nessun filosofo contrattualista ha mai sostenuto la storicità del contratto sociale, dato il suo carattere metaforico, Piombini incorre nello svarione di affiancare la critica di un reazionario come Haller alle tesi dell’anarchico ottocentesco Lysander Spooner, confondendo palesemente una critica per così dire “da destra” con una critica “da sinistra”. Spooner, infatti, denunciava il vincolo costituzionale, non per avere meno libertà per il popolo, ma per averne di più, ovviamente. La posizione di Haller è invece che lo Stato sia sostanzialmente di proprietà del regnante, non certo che il regnante debba lasciare libero gioco alle forze sociali! Porta a questi paradossi anche una cattiva lettura del concetto di proprietà privata, quando ciò che è interessante della proprietà non è la sua presunta “sacralità”, ma il fatto che si colloca in un sistema di mercato, il che non accade quando la proprietà è tanto monopolistica, da essere addirittura la “proprietà” di uno Stato, come nel sistema patrimoniale.
Lo stesso vale per la critica allo Stato di diritto. Anche qui convivono una critica da destra e una da sinistra. Per un libertario, tutto ciò è troppo poco, perché, ad esempio, le elezioni sono solo una parafrasi della concorrenza, mentre per i reazionari di Piombini tutto ciò è troppo, perché la democrazia è caos e basta il dominio paterno del sovrano a governare.
Infine Piombini si lancia in una requisitoria contro il “relativismo”, il multiculturalismo dell’odierno occidente, il cui unico rimedio sarebbe l’“assolutismo” propugnato dalla Chiesa cattolica, la quale però è a sua volta ecumenica, sicché ammette più multiculturalismo di quanto Piombini sospetti.
A dispetto del riferimento alla scuola austriaca, della quale fanno parte anche (in senso lato) Popper e Hayek, il fallibilismo di costoro viene accantonato, e scopriamo che nel nostro mondo esiste una “Verità”, e che l’occidente l’avrebbe tradita. Orbene, il liberale e il libertario non pensano di avere alcuna “Verità” in tasca, se non quella, che si colloca al meta-livello formale, che ognuno sia libero di perseguire il “relativismo” sostanziale che vuole. Il contrario di quello che propugna la Chiesa cattolica, per la quale esistono Verità assolute al livello più alto (l’esistenza di Dio), ma anche ai livelli più minuti: ad esempio sarebbe verità assoluta la malvagità del preservativo. Ma qui si entra in questioni di contenuto dell’azione umana, con riferimento alle quali qualunque corrente libertaria lascia all’individuo libertà di scelta, in quanto la libertà costituisce una forma e non un contenuto specifico. Al libertario interessa che la forma dell’azione sia libera, non quale ne sia il contenuto materiale, sempre che questa non sia impeditiva di altre condotte libere. L’avere abbandonato tale approccio elementare consente di constatare la fuoriuscita del paleo-libertarianism dal perimetro culturale non solo libertario, ma anche semplicemente liberale.