di Alessandro Campi
Può esistere una forma di potere “buono”, che sia cioè orientato al perseguimento del bene comune, che non conduca alla perdizione chi lo possiede, che non basi il suo esercizio unicamente sulla forza e sull’inganno, che non si limiti a perpetuare se stesso? Oppure il potere è intrinsecamente corrotto e malvagio, interessato solo alla propria autoconservazione, sordo agli insegnamenti della morale, finalizzato a soddisfare unicamente i bisogni e i desideri di chi lo detiene e dipendente dai capricci di quest’ultimo?
La discussione su cosa sia il potere (che non è solo quello politico), su come possa essere utilizzato, attraverso quali strumenti e in vista di quali obiettivi, sulle qualità (dalla virtù alla scaltrezza, dalla prudenza alla crudeltà) richieste a chi lo possiede e sui diversi modi per conseguirlo e mantenerlo è vecchia di secoli e non ha mai spesso di appassionare pensatori e filosofi d’ogni tendenza. Ma è tornata d’attualità dopo che Benedetto XVI – lasciando il mondo di sasso, facendo partecipi i suoi i contemporanei di un evento storico – ha volontariamente rinunciato al trono papale.
Una decisione che è stata spiegata in molti modi (ivi comprese le solite teorie di stampo complottista), ma che pare avere la sua ragion d’essere essenziale – stando alle parole dello stesso papa, più volte reiterate negli ultimi giorni – nella volontà di salvare la Chiesa dal rischio di una sua deriva secolare e profana, dal pericolo che essa perda di vista la sua missione spirituale universale per colpa delle fazioni che, scontrandosi all’ombra delle mura vaticane, cercano di assicurarsene il controllo con ogni mezzo.
Quando il buon cristiano – allorché si trova a ricoprire un ruolo di responsabilità al vertice della piramide sociale – teme di non riuscire a sottrarsi alle lusinghe e alle tentazioni di un potere divenuto peraltro debordante e fine a se stesso, che da strumento di governo della collettività si è trasformato in posta in gioco di lotte condotte nel nome dell’ambizione personale, non ha altra strada che rinunziarvi, denunciando il male che esso può generare. Che è esattamente quanto ha fatto Benedetto XVI, sopraffatto più che dalla stanchezza e dalla vecchiaia, come banalmente si è sostenuto, dalla preoccupazione per gli intrighi e le camarille – dettati da interessi volgari – che si stavano svolgendo sotto i suoi occhi ormai da anni.
Nell’Angelus di ieri mattina il Papa dimissionario ha espresso questo suo timore per le divisioni che rischiano di minare il futuro della Chiesa con parole molto forti. Ha messo in guardia contro il rischio di “strumentalizzare Dio per i propri fini, dando più importanza al successo o ai beni materiali” e, ricordando le tentazioni di Gesù nel deserto, ha spiegato che la suprema astuzia del Maligno consiste nello spingere gli uomini non “direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari”.
Benedetto XVI, avvilito dallo spettacolo di lotte sorde e manovre dietro le quinte del governo vaticano al quale si è infine arreso, sembrerebbe aver fatto propria, sino a denunciarla con forza, un’idea del potere come tentazione diabolica per l’uomo che detiene il comando (poco importa che si tratti della Chiesa o di uno Stato) e come strumento che, essendo per sua natura indifferente a Dio e alla morale, spinge gli uomini – ricorrendo, se necessario, a qualunque mezzo: dalla bugia al tradimento – a preoccuparsi solo del successo mondano e del proprio tornaconto.
Nell’anno in cui si ricorda in tutto il mondo il cinquecentenario del Principe machiavelliano, la cui stesura iniziale risale appunto all’estate-autunno del 1513, questi ammonimenti parrebbero delineare una sorta di nuovo anti-Machiavelli cattolico, visto che è stato proprio il Segretario fiorentino, un pagano miscredente, a radicare nella cultura moderna un’interpretazione strumentale e cinica del potere, a suo giudizio basato di necessità sull’uso combinato della forza e dell’inganno, sulla manipolazione del sentimento religioso, e finalizzato unicamente al dominio sulle persone e sulle cose. Un modo di intendere il potere che sembrerebbe quello oggi dominante.
Ma questa lettura diabolica e sinistra del potere secondo Machiavelli – che i gesuiti, non a caso, consideravano “il compagno del diavolo nel delitto” – oggi sappiamo che è il frutto di un equivoco politico-intellettuale durato almeno quattro secoli. L’autore del Principe non era certamente un cristiano, ma aveva una visione morale molto solida: considerava gli uomini come tendenzialmente ingrati e volubili, ma questo non lo portava a considerare il male una loro caratteristica immutabile, semmai una realtà con la quale essi da sempre debbono fare i conti, ma per cercare di rifuggirla. Se ne deduce che il potere – per Machiavelli – non è intrinsecamente cattivo e malvagio, anche se magari è stato conquistato ricorrendo a stratagemmi e scelleratezze. Può anche essere orientato ad uno scopo nobile ed esercitato nell’interesse di tutti. Ad esempio per cementare una comunità politica. Oppure, con riferimento all’epoca in cui Machiavelli scrisse, per dare agli italiani una patria comune e per liberarli dal giogo straniero, secondo quanto si legge nella celebre esortazione che chiude il Principe.
Ma lo stesso orientamento – sul potere come strumento per realizzare una causa “buona” e non come possesso privato o mezzo per soddisfare le proprie brame e dominare sul prossimo, o come arma del diavolo – sembra curiosamente ricavarsi anche dai discorsi e ragionamenti con i quali il Papa ha scelto di accomiatarsi dal suo incarico. Al Vaticano spetta il governo politico-amministrativo, non solo spirituale, della Chiesa universale. Ma il grande potere, anche finanziario, di cui esso dispone non è necessariamente un pericolo per l’integrità morale di coloro che ne dispongono, purché questi ultimi siano animati da un autentico amore per Dio e le sue creature, purché sappiano scegliere, come ha detto ieri all’Angelus, tra l’interesse personale e il bene collettivo, purché siano dotati di virtù ed abbiano forza di carattere.
Gli uomini, in altre parole, possono fare un pessimo uso del potere che hanno, sino a farsene abbagliare. E possono altresì condannarsi alla perdizione nel desiderio spasmodico di conquistarlo. Ma ciò dipende dalle loro scelte e dal loro di comportarsi, non dal potere in quanto tale. È quanto sembra sostenere il Papa, che si è spogliato di ogni potere proprio per mostrare quanto sia sbagliato abusarne o desiderarlo come un bene in sé, ma Machiavelli (quello autentico, non quello della secolare vulgata antimachiavelliana) sarebbe stato d’accordo.
* Articolo apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 18 febbraio 2013.
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