di Ivo Germano*

Piaccia o no la metafora epidemiologica, il Senator-Professor Mario Monti è l’anti-corpo di Silvio Berlusconi. Incarna l’“anticorpo” del “corpo a corpo” della e nella politica. Alla faccia del calembour e delle categorie rese note e retoricissime dal 1992 in poi. La baldanza incontrollata, la gesticolazione del ditus, l’invettiva, il parlar contro e sopra l’interlocutore. Il borborigmo ventrale della lenta digestione causata da eccessivo carico istituzionale spazzati via dall’assenza di coordinate e di minima topografia fisica e corporea.

Non è tanto il tweed a far da collante al governo Monti, ma la non ostensione del corpo e, badate bene, non si tratta di rimozione. Ma di convinzione profonda del distacco. La stessa differenza fra gli interni di boiserie e il fazzoletto del cerone, il corpo che, perfino, oltraggiato da una statuetta del duomo di Milano s’immolava alle luci forti del primetime.

Ognuno di noi ha in mente le tipologie deformi che dalla televisione balzano a funestare la nostra vista, lo stile informe e amorfo di molte pseudodiatribe che siamo stati costretti a sorbirci. Di fatto sancendo la vittoria assoluta del Surrealismo. Proprio adesso che, fuori tempo massimo, una certa pubblicistica vorrebbe agganciare il “SilvioEvo” al ’68 in forma di pamphlet del riassunto delle fasi precedenti ad emergere è proprio la profonda differenza del corpo e dei corpi. Banalissimo il primo livello, cioè il troppo facile indugiare su ninnoli visivi del tacco 12 e dei seni mezzi fuori, sostituiti da un brusco ritorno alla sobrietà, senza se, senza ma… senza mechés. Quel che ci voleva o si doveva fare non sarà più incentrato sulla leadership fisica e tonica di Silvio Berlusconi in posa erculea a mostrar bicipiti e in corsa di biancovestito. Il corpo come emblema del vitalismo più elettorale che politico giace come un “guscio vuoto” di hegeliana memoria e, appena appena, in soggezione per non essere più, parafrasando il titolo di un saggio ficcante di Marco Belpoliti, “il corpo del capo”.

Al limite dell’anodino, compassato, rigorosissimo Mario Monti avrà tante preoccupazioni, ma non più quella del corpo. Che nel bipolarismo carnascialesco e muscolare della Seconda repubblica poteva a tutto rinunciare fuorché al Fight Club da talk show, agitarsi e roteare le braccia in segno di trionfo e di gloria mondana, viva eredità del linguaggio e della comunicazione sportiva. Per rispondere al governo precedente Monti pare optare sullo scansare necessariamente il rischio di buttarla in “biopolitica”, cioè su come tempi e modi della fisicità che sono mutati e che muteranno, eccome, se muteranno.

La parola è potere e il corpo lo è di più, nel magistero diasporico di Michel Foucault dovendo sottostare all’ultimatum degli ultimatum che, poi, diventa l’inizio e la fine di un’epoca: fare o non fare; darsi tregua o pace, oppure, lavorare, lavorare,  lavorare. Venti canonici soffiano sull’orizzonte del corpo. Beninteso, non voluti o non improvvisati. Destrutturati o strutturati con sapienza e, forse, con inconscia complicità fra noi e loro, cioè uomini e donne, apparentemente, votati alla fusione o confusione dei ruoli, sembrano voler mettere le cose in chiaro, almeno, pensano e agiscono così.

Tempo d’anticorpi, correttivi non solo economici e finanziari. Silvio Berlusconi accettando l’incontenibile voglia e volontà di appartenenza e identità, rigorosamente con la “i” minuscola, ha trasformato il suo corpo in metafora/“surrogato della guerra” nella società post-secolare. Ora, Mario Monti con prudenza “manzoniana” vorrebbe che tutto ciò fosse ridotto a banale nota a margine: le idee si spostano e continuano a farlo, soprattutto, quando le grandi categorie politiche e culturali sono fisse e cieche.

* Professore aggregato di Sociologia dell’Università del Molise