di Alia K. Nardini
Il Super Tuesday è da sempre l’evento più importante delle primarie statunitensi: in un solo giorno, viene assegnato un numero di delegati così consistente da lasciare pochi dubbi su quale dei candidati del partito otterrà la nomination alla presidenza nella convention di fine estate. Questo, per lo meno, è ciò che è accaduto con sorprendente regolarità nella storia elettorale statunitense: ma nella corsa del 2012, le cose stanno andando diversamente. Quest’anno, neppure il Super Tuesday si è rivelato decisivo per la scelta del candidato delle elezioni di novembre.
Che quest’anno il Partito Repubblicano stesse partecipando ad una gara atipica, era già nell’aria: prima di tutto, con i ripetuti cambiamenti apportati al calendario elettorale già nel 2011, quando alcuni stati avevano scelto di spostare le date delle proprie primarie, sebbene ciò significasse incorrere nelle penalità imposte dalla commissione nazionale di partito e perdere metà dei propri delegati (New Hampshire, South Carolina, Florida, Arizona e Michigan). A questo si sono aggiunti l’enorme quantitativo di denaro investito nella campagna elettorale, specie da parte di Mitt Romney; i toni accesi e gli attacchi velenosi, senza esclusione di colpi; e, sopra a tutto, quella rosa di candidati così poliedrica – perlomeno finché in corsa c’erano ancora Huntsman e Cain –, dalla quale faticava (ed ancora oggi fatica) ad emergere un leader decisivo ed autorevole. Se i Repubblicani speravano di avere primarie più avvincenti, sicuramente quest’anno sono stati accontentati.
Guardando più da vicino a quanto accaduto nel Super Tuesday, ciò che appare evidente è che ancora una volta Romney ha riportato una vittoria di misura. Il successo morale è, anche questa volta, di Rick Santorum, che ha pronunciato un discorso emozionante ed autorevole proprio in Ohio – lo stato che ha perso, per un solo punto percentuale, contro l’ex Governatore del Massachusetts. Romney vince dunque in Ohio, con il 38% dei voti; conquista anche la Virginia, dove ottiene il 59,5% delle preferenze contro il 40,5% di Ron Paul, l’unico altro candidato in gara; l’Alaska (32,6% contro il 29% di Santorum e il 24% di Paul), e con percentuali simili il Vermont; il nativo Massachusetts; l’Idaho e, per quanto conteggiato sinora, con i risultati conclusivi che giungeranno tra qualche giorno, anche il Wyoming. A Santorum vanno invece, con vittorie però più nette (10 punti percentuali di stacco medio su Romney, al secondo posto) Tennessee, Oklahoma e North Dakota. Newt Gingrich, seppur con un risultato onorevole (47,4%), si deve accontentare della sua Georgia.
Una considerazione importante riguarda proprio il futuro di Gingrich, per il quale a questo punto diviene inevitabile riconsiderare l’ipotesi di un ritiro, specialmente poiché tutti si aspettavano un suo risultato migliore in questo appuntamento elettorale. Certo, senza la presenza di Gingrich la gara in Ohio, e molto probabilmente anche la Georgia, avrebbero favorito Santorum; tuttavia Gingrich è rimasto caparbiamente in corsa, continuando a portare via voti, come una lenta emorragia, a quella che avrebbe potuto già da tempo essere una sfida testa a testa tra Romney e l’ex Senatore della Pennsylvania. Ora, passato nell’ombra l’appuntamento che sembrava per lui più promettente, non ha più molto senso per Gingrich sperare in una rimonta.
Una seconda e più importante osservazione: guardando alla distribuzione delle preferenze, è evidente come il voto dei blue collars, e quindi del cuore industriale del paese, sia con Santorum. Questo non solo è rilevante perché evidenzia, ancora una volta, l’incapacità di Romney di stabilire un legame con la classe operaia ed in generale con l’elettorato Repubblicano più duramente colpito dalla crisi economica; ma perché riconferma che il partito è frammentato, e che la stella di Santorum è tutt’altro che in declino. Se i finanziatori hanno deciso già da tempo con chi schierarsi, una parte consistente dell’elettorato del Grand Old Party non intende assolutamente allinearsi di malavoglia dietro al candidato “più probabile”, quello che i media ripetono incessantemente sia l’unico ad avere il denaro e la resistenza per giungere lentamente, ma inesorabilmente, alla convention per aggiudicarsi il titolo di sfidante di Obama. I Repubblicani mal sopportano l’inevitabilità di questa scelta; e manifestano la loro insofferenza dando il loro voto a chi è in grado di far leva sui loro sogni e sulle le loro aspettative, al di là di tanti calcoli matematici o considerazioni prudenziali.
In quanto alla possibilità di una brokered convention, possibilità a cui molti giornalisti hanno fatto riferimento come ad un disastro imminente, si tratterebbe di un evento raro ma certo non da escludere – né forse così drammatico quanto si dice. Tecnicamente, una brokered convention si verifica quando nessuno dei candidati riesce a ottenere, prima dell’assemblea nazionale, i 1144 delegati necessari per la nomination; ma non necessariamente questo risulta, come invece hanno prospettato alcuni media, nella scelta di un outsider di fronte al quale gli altri sfidanti debbano rinunciare alle loro candidature. Il Partito ha altri mezzi per scongiurare eventuali impasse nel processo di scelta del ticket presidenziale, primo tra tutti la possibilità di sciogliere dal loro voto i pledged delegates (coloro che hanno legato il proprio nome alla preferenza espressa per un determinato candidato), in modo che i numeri si spostino più fluidamente creando maggioranze più decise. In ogni caso, è ancora troppo presto per valutare l’ipotesi di una brokered convention: ci sono ancora tantissimi delegati da nominare, e il numero dei candidati in corsa potrebbe diminuire.
Siamo ancora lontani dalla fine di queste primarie. Da un lato, il conteggio delle preferenze è ancora oggi incompleto, poiché molti stati assegneranno i propri delegati proprio alla convention; d’altro canto, data la complessità del meccanismo elettorale, spesso si ottengono cifre discordanti anche per quanto riguarda l’allocazione dei rappresentanti già conclusasi. In media, è sicuro affermare che Romney ha circa il doppio dei delegati di Santorum (354 contro 157, secondo Realclearpolitics); Gingrich è fermo a 87, e Ron Paul a 54. Ci sono ancora quasi 1400 delegati da assegnare tramite il voto, più i cosiddetti bonus delegates – i 373 rappresentanti “premio” di cui dispongono gli stati che hanno votato in maggioranza per il candidato Repubblicano nelle elezioni precedenti, che hanno eletto un membro del Partito al Congresso o come Governatore, e dove il partito ha la maggioranza nelle camere legislative. È un sistema complesso, e il voto popolare è imprevedibile. Tutto ancora può succedere.
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