di Danilo Breschi

Un miliardo e mezzo di euro hanno ingrassato i partiti della cosiddetta Seconda Repubblica negli ultimi 15 anni. Motivazione: “rimborsi elettorali”, per le elezioni politiche, le amministrative, le europee, i referendum. Nel 2008 lo Stato ha passato ai partiti 271,5 milioni di euro: 99 milioni per la terza rata delle politiche 2006; 100,6 milioni per la prima rata delle politiche del 2008 (costate complessivamente 503 milioni); 49,3 milioni come quinta rata delle Europee 2004; 41,6 milioni quale quarta rata delle Regionali del 2005. In questa legislatura manca la legge che consente rimborsi ai partiti defunti e, con la nuova Finanziaria, si taglia il rimborso del 10%. La contribuzione annuale si aggirerà sui 143 milioni. Dal 2008 al 2012 si è registrato un incremento del 457% (!) nei rimborsi elettorali ai partiti.

Di tutti questi milioni e milioni di euro sappiamo l’uso che non di rado è stato fatto in tutti questi anni. Basti pensare ai casi più recenti che hanno visto coinvolti da una parte Luigi Lusi, ex tesoriere dell’allora Margherita e oggi senatore del PD, ma anche Filippo Penati, ex presidente della Provincia di Milano ed ex capo della segreteria di Bersani, e dall’altra parte la famiglia Bossi e alcuni esponenti dei vertici della Lega, da Francesco Belsito, tesoriere di quel partito, nonché ex sottosegretario di Stato del Ministero per la Semplificazione Normativa (sic!), fino al vicepresidente del Senato Rosy Mauro. E la sensazione è che si tratti solo della punta di un iceberg della corruzione e dell’uso privato di soldi pubblici a cui, se non tutti, quasi tutti i partiti abbiano prima o dopo preso parte negli ultimi vent’anni. I reati ipotizzati vanno dal riciclaggio alla truffa ai danni dello Stato, dall’appropriazione indebita al finanziamento illecito ai partiti. Ancora tante tangenti e tanta corruzione. Davvero la cosiddetta Prima Repubblica non è mai finita, almeno da questo punto di vista, e non solo.

Nel frattempo la tassazione è salita a livelli vertiginosi. Sono dati di questi ultimi giorni: la pressione del Fisco nel 2012 sarà del 45,1%, se non di più, visto che siamo solo ad aprile, e che poi l’evasione alza la quota effettiva per i contribuenti onesti (si supera il 50%). Rispetto al 2011 c’è stato un incremento del 2,6%. Per il 2013 è previsto un ulteriore aumento: dovremmo arrivare al 45,4%, ma queste sono solo le aspettative più ottimistiche. L’avvento di Mario Monti ha fermato la tendenza negativa di un debito nazionale in costante crescita? Macché! Il debito pubblico italiano, che nel 2011 si è attestato al 120,1% del Pil, volerà quest’anno a quota 123,4%. Il Pil crollerà dunque quest’anno a –1,2%. E fermiamoci qui per carità di patria.

Da questa rapida rassegna emergono comunque due dati di fatto inoppugnabili. Primo: la gravissima crisi di rappresentatività del sistema politico-parlamentare italiano. La nostra classe politica mostra infatti, quasi quotidianamente, di essere assolutamente indegna di ergersi a rappresentante degli interessi dei cittadini, dal momento che storna quantità enormi di denaro pubblico a fini privati. Secondo: il livello di tassazione attuale, e in particolare la reintroduzione di una imposta sulla prima casa, peraltro assai maggiorata rispetto al passato, configura un attacco ad uno dei diritti fondamentali per la libertà dell’uomo, la casa. L’art. 47 della Costituzione italiana recita al principio del secondo comma che la Repubblica “favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”. Introdurre un imposta come l’Imu, probabilmente durevole nel tempo, vuol dire imporre per legge il pagamento di un affitto annuo allo Stato, che diventa in qualche modo il proprietario di ultima istanza, quindi effettivo, della abitazione di ogni cittadino italiano.

Il fondatore dell’idea dello “Stato del benessere” e il più eminente filosofo europeo del periodo tra Leibniz e Kant, ovvero Christian Wolff, nel 1740 affermava che la casa era il complemento immediato e necessario della persona umana, quasi una sua estensione fisica, e un segno concreto e non effimero della sua condizione di essere vivente dotato di dignità. Il grande illuminista tedesco riteneva che la casa fosse un “diritto-dovere”, e quindi i cittadini dovevano e devono essere aiutati perché se la procurino lavorando.

Non è forse un caso che il pensiero di Wolff abbia avuto un forte impatto sulla Dichiarazione d’indipendenza americana, quella che scaturì da una lotta ispirata fra l’altro dal celebre motto “no taxation without representation”. Questo, a sua volta, era la rielaborazione settecentesca di un antico principio medievale inglese, che già aveva partorito un documento fondamentale nella storia costituzionale occidentale, ossia la Magna Carta Libertatum del 1215. Approfondito e sviluppato nei secoli successivi, tale principio aveva animato sempre in Inghilterra la lotta tra Parlamento e Corona nel corso del XVII secolo. L’esito finale era stato l’affermazione del costituzionalismo e della centralità di una rappresentanza parlamentare all’interno del processo decisionale, non più esclusiva prerogativa del Re.

Tornando alle vicende nostrane, appare di tutta evidenza l’assordante stridore tra una rappresentatività politica ai minimi storici e una tassazione a livelli mai visti prima, sino al punto di intaccare alcune prerogative individuali che in un Paese di autentica cultura liberale e democratica sarebbero avvertite come inviolabili e da difendersi strenuamente. Di fronte a questo stridore che aumenta giorno dopo giorno si levano le più disparate voci, tutte però intonante al populismo, che strepitano contro il regime ed evocano miraggi rivoluzionari, tanto abbaglianti quanto sterili. Chi ne parla in tv e nei comizi di piazza sa già di poterli utilizzare come mezzo per raccogliere consensi nei prossimi appuntamenti elettorali, per poi, ad elezioni terminate, adeguarsi prontamente e plasticamente a gestire con le vecchie e consuete modalità oligarchiche quel potere che tali consensi avranno potuto dargli.

Non è dunque di rivoluzione che è bene parlare. Non porterebbe a niente, se non all’ennesimo inganno gattopardesco, in modo che “tutto cambi affinché nulla cambi”. Ma è in queste situazioni che sarebbe opportuno che si tornasse a parlare di quella “valvola di sicurezza” con cui il pensiero politico liberal-democratico ha da secoli dotato quell’insieme di istituzioni che denominiamo “democrazia”: la pratica del dissenso e persino della “disobbedienza civile”. Sulle pagine della “Rivista di Politica” si è parlato spesso, dedicandogli anche un numero monografico, di Gianfranco Miglio e della sua importante opera di scienziato della politica. Ebbene, proprio questo studioso ebbe a scrivere vent’anni fa che “il peggior malanno che possa toccare a una repubblica di uomini liberi sta nell’avere detentori del potere che mutano solo apparentemente”. Se è vero quanto mi fa osservare Daniela Belliti in un articolo apparso sull’Istituto di politica on line, e cioè che tra Prima e Seconda Repubblica non c’è stata alcuna soluzione di continuità, ed in realtà strutture e modalità di gestione del potere sono rimaste le medesime, così come non poche personalità da sempre operanti dietro le quinte, allora l’affermazione migliana si fa allarmante per noi italiani.

Vuol dire che da decenni le classi politiche nostrane sono riuscite con successo ad adottare ed applicare gli espedienti classici con i quali ci si conserva e consolida nei posti di comando di una società avanzata: “dalla distribuzione di favori (leciti o illeciti), mirata in modo da costituire schiere di “clienti”-elettori, interessati a non veder cambiare i protettori; all’uso spregiudicato dei mezzi di informazione (stampa e televisione) per svalutare o isolare nel silenzio i candidati al ricambio, e, prima ancora, per manipolare a proprio vantaggio le informazioni in base alle quali i cittadini dovrebbero decidere come esercitare il loro diritto di voto”.

Insomma, la misura è colma, e la tensione fra tasse per i governati e corruzione dei governanti rischia di passare da una conflittualità latente ad una palese. Finora ha probabilmente frenato il fatto che tutta questa differenza fra “paese legale” (ma meglio sarebbe cominciare a dire “illegale”) e “paese reale” non c’è poi mai stata. Se i partiti e i loro vertici si sono comportati in un certo modo vorrà anche dire che qualcuno glielo ha permesso.

È subentrato però negli ultimi tempi un fatto nuovo: la crisi finanziaria, che per l’Italia è soprattutto crisi del debito, ovvero crisi dello Stato, sta riducendo in modo drastico e corposo il numero dei “clienti”-elettori, di coloro cioè che ritengono di poter ottenere, e possono effettivamente ottenere, vantaggi materiali da un voto, che è “di scambio” anche quando non è frutto di un accordo esplicito e palese. Meno soldi in circolazione, anche per enti locali e ministeri, meno potere di catturare consensi elettorali per i partiti cui i governanti, locali e nazionali, appartengono, minor propensione del cittadino a dare un sostegno, sotto forma di voto, ai partiti di governo, che oggi il caso vuole siano almeno i tre maggiori a livello nazionale, Pdl, Pd e Udc, ovvero destra, sinistra e centro, tutti al servizio di Monti e del suo governo tecnico.

Su cosa possa salvare una democrazia, e nello specifico quella italiana, nel momento in cui tassazione popolare e corruzione governativa sono ai livelli di guardia, è difficile ragionare, soprattutto se manca una tradizione civica diffusa di pratiche di “disobbedienza civile”, ovvero di manifestazione pacifica ma netta e decisa di dissenso ed opposizione, di rifiuto di quell’obbligo politico quando esso appare imposto da chi sembra non più legittimato, né politicamente né moralmente, a farlo.

Sarà interessante esaminare l’esito elettorale delle prossime consultazioni amministrative di maggio. Il fatto che la nuova, esorbitante e vessatoria tassazione ricadrà prevalentemente su alcune categorie ben determinate che non su altre, e che le prime saranno comunque numerose e trasversali (ad esempio, lavoratori dipendenti, pensionati, proprietari di una sola casa), potrebbe configurare la nascita di un blocco sociale relativamente omogeneo e senz’altro ampio. Chi saprà fare la sintesi dei vari cahiers des doléances provenienti dalla penisola potrebbe guadagnarsi un ricco bottino di voti. Resta però l’incognita dell’astensionismo che, se supererà le consuete, fisiologiche percentuali, sarà il vero segnale di una sfiducia generale nel sistema politico. Ed è da lì che si potrebbe ripartire. Come, non so. Si accettano suggerimenti e proposte, che urgono.

 

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