di Alessandro Campi
I venti di guerra che soffiano minacciosi sul mondo fanno scivolare inevitabilmente in secondo piano gli spifferi di crisi che attraversano l’Italia da ogni lato, anche se per noi abitanti della Penisola sono egualmente fonte di preoccupazione: l’economia che non riparte, la povertà che cresce anche tra il ceto medio, la popolazione sempre più vecchia, i giovani senza lavoro, il sistema politico impallato e prossimo alla paralisi, la corruzione che non si riesce a frenare, i conti pubblici perennemente in rosso, una pressione fiscale stellare a fronte di servizi scadenti, cittadini arrabbiati e che non credono più in niente. Insomma, un Paese avvolto su sé stesso e stagnante, che sembra sopravvivere grazie a espedienti tattici e allo spirito di sopportazione dei suoi cittadini.
In questo quadro oscuro, l’unica luce che brilla sembra quella dei 5 Stelle: avanti nei sondaggi, ormai blanditi da quegli stessi che un tempo li criticavano qualunque cosa facessero, e perciò sempre più convinti che tocchi a loro, appena possibile, prendere la guida del governo. Un azzardo che sembra diventato una necessaria fatalità da quando si è scoperto che l’Italia che lavora e produce – imprenditori, tecnici, professionisti, operai – guarda ormai a Grillo con crescente simpatia. E poco importa che le sue profezie futuribili appaiano avvolte dal fumo delle chiacchiere e dell’improvvisazione: hanno almeno il merito di evocare scenari di cambiamento e d’innovazione, anche radicali, laddove tutti gli altri attori politici sembrano essersi convertiti alla difesa dello status quo e all’immobilismo come unica risposta alla crisi.
D’altro canto i fatti parlano chiaro. La stagione del riformismo renziano – largo ai giovani e al merito, basta col diritto di veto delle corporazioni, meno burocrazia e istituzioni più snelle, stop allo strapotere dei sindacati, regole più semplici e funzionali per favorire le imprese e il mondo del lavoro… – s’è largamente appannata, anche perché da un certo punto in avanti è parso eccessivo, come già era accaduto con i propositi modernizzatori di Berlusconi, lo scarto tra i proclami sempre altisonanti e le realizzazioni effettive sovente modeste o troppo lente. La sconfitta al referendum costituzionale e la resa dei conti all’interno del Partito democratico hanno fatto il resto, consegnando la guida dell’esecutivo ad un politico mite e serio ma preoccupato solo di gestire l’ordinaria amministrazione e di evitare fughe in avanti.
E dunque non sorprende se anche quel poco di cambiamento che il governo Renzi aveva avviato, non senza contrasti all’interno del suo stesso campo politico, sia stato immediatamente stoppato. Ricordate la “buona scuola” che avrebbe dovuto premiare l’impegno professionale dei singoli docenti e dare maggiori poteri e responsabilità ai capi d’istituto? Per smantellarla e cercare di recuperare il consenso degli insegnamenti perennemente arrabbiati non si è trovato di meglio che mettere una sindacalista alla guida del ministero di Viale dell’Astronomia. Sul fronte del lavoro, a rimangiarsi lo strumento dei voucher, che un po’ di nuova occupazione l’avevano comunque creata, ci si è messo un attimo pur di scongiurare lo spettro del referendum voluto dalla CGIL e ristabilire con quest’ultima relazioni cordiali. Guardate infine alla recente trattativa sull’Alitalia, quest’incubo industrial-sindacale che ci perseguita da anni: si pensa di uscire da quest’ennesima crisi bleffando al ribasso sul numero effettivo degli esuberi e tagliando gli stipendi dell’8% (il che significa lasciarli intatti) a coloro che resteranno in organico, con l’idea recondita che toccherà ai nuovi assunti accontentarsi di stipendi al minimo vitale e di contratti precari a vita.
Il problema è che il riformismo renziano (così come la “rivoluzione liberale” del Berlusconi delle origini) avevano, guardando alla struttura sociale dell’Italia – statica, piramidale, e tendenzialmente gerontocratica –, un obiettivo primario: riequilibrare i rapporti tra le generazioni togliendo tutele e privilegi a quelle sin troppo garantite e offrendo chances di inserimento professionale, da retribuire secondo il merito la competenza e l’impegno, a quelle più giovani e dinamiche. Ma l’obiettivo, come si può vedere oggi, è stato clamorosamente mancato.
Anzi, si è determinato, nel mentre si andava acuendo a partire dal 2008 la crisi dell’intero sistema economico, uno strano paradosso. Si sono sempre più protette socialmente e sindacalmente le fasce d’età tendenzialmente meno produttive (pagandole meglio e di più rispetto alla loro effettiva capacità lavorativa) e si sono colpevolmente mortificate sul piano retributivo, lasciandole altresì senza diritti e in condizione di precarietà strutturale, le generazioni più giovani, quelle culturalmente più dinamiche e più in sintonia coi processi di trasformazione che stanno cambiando la società e lo stesso mondo del lavoro. Insomma, invece di trasferire la ricchezza che fa capo alla spesa pubblica verso i giovani, la si è lasciata in gran parte a beneficio dei ceti sociali protetti e che spesso sono quelli che, per ragioni di età, si trovano già fuori dal mondo produttivo o ai suoi margini in termini di resa e prestazioni.
Tanto basta a spiegare l’ascesa grillina, che evidentemente non raccoglie più solo i consensi degli arrabbiati cronici e di quelli che vogliono sfasciare tutto, ma anche di coloro che dalla politica si aspettano riforme, cambiamenti, innovazioni, proposte, ipotesi per il futuro. Insomma, la volontà di rischiare e la capacità di mettersi alla guida dei processi di trasformazione. Tra gli avversari del M5S – Pd e Forza Italia in testa – sembrano invece dominare le spinte conservative, nella convinzione che avvicinandosi le elezioni convenga probabilmente tenersi buoni i rispettivi elettorati ed evitare di alterare gli equilibri esistenti. Quando invece sarebbe necessario proprio il contrario, se davvero si ritiene il movimento grillino un pericolo da contrastare: vale a dire la messa a punto di un’agenda economico-sociale riformistica, innovatrice e coraggiosa in materia di riduzione delle tasse, di semplificazione normativa e burocratica, di regole sul lavoro e l’occupazione per davvero flessibili, di investimenti economici in opere pubbliche e di investimento sociale sulle giovani generazioni, di liberalizzazioni, di uso e diffusione delle nuove tecnologie, di risorse da destinare alla ricerca scientifica ecc. Se invece si pensa di andare al voto promettendo dentiere agli anziani o spremendo le casse pubbliche per distribuire sussidi, incentivi e prebende con la scusa che bisogna combattere la povertà, beh, non ci si stupisca il giorno in cui Luigi Di Maio o chi per lui siederà a Palazzo Chigi.
* Apparso su “Il Mattino” di Napoli del 16 aprile 2017.
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