di Danilo Breschi

tien an menVenticinque anni fa sbocciò una vera, autentica “Primavera democratica”, più popolare e avanzata nelle sue richieste rispetto a molte che si sono consumate nell’Africa mediterranea di tre anni fa. Accadde in Cina, sotto il regime a partito unico della Repubblica Popolare Cinese. Iniziate il 15 aprile del 1989, le dimostrazioni popolari di protesta guidate da giovani studenti e operai a Pechino proseguirono per quasi sette settimane. Il 4 maggio 1989 (data simbolica poiché richiamava il movimento studentesco nazionalista e antimperialista del 4 maggio 1919, che invocava “Mr. Democracy” e “Mr. Science”) circa 100mila persone marciarono per le strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo tra le autorità del Partito comunista e una rappresentanza eletta dagli studenti.

Già da un paio d’anni erano emerse richieste crescenti a favore di alcune riforme di modernizzazione economica, e anche qualcosa di più. Nell’estate del 1986 il professore Fang Lizhi, noto astrofisico, di rientro da Princeton aveva girato in molte università cinesi, predicando libertà, diritti umani e separazione dei poteri. Diventò assai popolare tra gli studenti, tanto che seguirono alcune manifestazioni di protesta ben presto bloccate. In quelle settimane di primavera del 1989 si fecero ancora più dilaganti e pressanti le rivendicazioni perché si introducesse trasparenza nella gigantesca e tentacolare burocrazia del regime, perché venissero garantite le libertà di parola e pensiero, di stampa, associazione e riunione. Il 13 maggio circa duemila studenti decisero di insediarsi in piazza Tienanmen e le loro richieste si radicalizzarono ulteriormente, arrivando ad accusare di corruzione il Partito comunista cinese e il tentativo di ritornare al conservatorismo del vecchio Deng Xiaoping, ancora uomo forte del regime in quanto presidente della Commissione militare centrale. Gli studenti chiedevano a gran voce che quanto stava accadendo in quei mesi fuori dalla Cina, e in particolare in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est, potesse favorire anche in patria l’attuazione di riforme in senso democratico.

I manifestanti radunati a piazza Tienanmen eressero anche un’enorme statua, alta 10 metri, chiamata “Dea della Democrazia”, che gli studenti dell’Accademica Centrale delle Belle Arti avevano costruito in polistirolo e cartapesta sopra un’armatura metallica. Il 20 maggio il vertice del Partito comunista optò per la proclamazione della legge marziale, richiamando sulla capitale circa 300mila soldati. All’inizio l’esercito incontrò una forte resistenza da parte della popolazione manifestante nella capitale e si astenne dal reagire con la forza, cosicché la situazione restò paralizzata per 12 giorni. Pare sia stato Deng Xiaoping a premere sui vertici del Partito perché si decidesse per l’uso della forza. La notte del 3 giugno l’esercito iniziò quindi a muoversi dalla periferia verso Piazza Tienanmen. Di fronte alla resistenza che incontrarono, aprirono il fuoco e arrivarono in piazza. Nonostante non sia possibile una ricostruzione dettagliata dei fatti, poiché la censura del regime entrò subito all’opera, fu senz’altro un massacro. Nella notte fra il 3 e il 4 giugno si consumò quello che alla storia è passato come “massacro di piazza Tienanmen”, anche se è probabile che le maggiori uccisioni di civili inermi avvennero in altre zone della città. Alle 5:40 del mattino del 4 giugno la piazza era stata sgomberata. Il giorno dopo, 5 giugno, un ultimo sussulto di questi giovani uomini e donne piene di fierezza e speranza. Ed ecco che tra questi, e tra i parenti dei manifestanti uccisi o feriti, accorsi all’alba nella piazza e nelle sue adiacenze, si staglia la scena che segnò la fine del XX secolo, e che segnò, sì, uno scacco per la democrazia, ma non completo, non definitivo, perché quella scena divenne un simbolo, e “le grandi immagini parlano sempre” e per l’avvenire.

Il simbolo della libertà fu stavolta incarnato da quel giovane rivoltoso e pacifico che sfidò i carri armati, in fila lungo la grande avenue di Chang’an, ponendosi loro di fronte, armato solo della sua tenace umanità e di una disperata speranza in un nuovo inizio. Quel che nell’Europa dell’Est si concluse con il crollo delle dittature a partito unico satellitari dell’Unione Sovietica (che sarebbe a sua volta implosa nel biennio successivo) non avvenne nell’Estremo Oriente. Da allora, è stata rimossa e cancellata ogni traccia di ciò che accadde in quelle settimane di primavera a Pechino e dintorni, e a piazza Tienanmen, e quanto avvenne poi nei giorni che seguirono. Il bilancio di quella ventata di libertà: centinaia, migliaia – secondo molti osservatori e organizzazioni internazionali (tra cui Croce Rossa e Amnesty International) – tra donne e uomini, giovani e meno giovani, furono uccisi, molti altri ancora imprigionati, torturati, fatti scomparire per sempre. Una coltre di silenzio, censura e, ancor peggio, disinformazione (se ne hanno prove navigando oggi in Rete) è stata sapientemente incollata sopra a quel che accadde, perché niente si ricordi.

Nel nostro piccolo, noi, che in quelle settimane ci apprestavamo all’esame di maturità liceale, teniamo bene a mente Tienanmen, cosa accadde in quella piazza e in molte altre città della Cina nel corso della primavera di venticinque anni fa, in quella timida ma decisa alba cinese, eclissata da un regime che, ancora oggi, molti dissidenti ed esuli, così come i tibetani, sanno bene quanto sia totalitario. A dimostrazione che né nel 1945 né nel 1989 il totalitarismo ha cessato di essere un regime del tempo presente, perché attuale ancora è, purtroppo, solo che non lo si nomina come tale. A dimostrazione che non è esattamente vero che “numina sunt consequentia rerum”, soprattutto quando le cose, le realtà storiche e politiche vengono manipolate. Se ne ha paura, non sta bene dire certe cose in certi ambienti, anche occidentali.

Qui sotto le richieste contenute nel manifesto degli studenti cinesi, protagonisti di una rivolta pacifica, ispirata alla gandhiana non-violenza, con sit-in di massa e sciopero della fame. Martiri della libertà. Libertà: una parola per indicare un ideale e una pratica che sempre richiedono coraggio e speranza nel futuro:

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