di Stefano De Luca

I grandi partiti della Seconda Repubblica vivono, da quando è entrato in carica il Governo Monti, una stagione singolare. Dopo aver occupato a lungo e in modo rumoroso il centro della scena pubblica, sono improvvisamente entrati in un cono d’ombra, in una zona insonorizzata, dalla quale arrivano solo poche e flebili voci. Paradossalmente, tutto quel che di buono il Governo Monti ha fatto – e non è poco – è anche merito loro: senza i voti del Pdl e del Pd i provvedimenti dell’esecutivo d’emergenza non sarebbero potuti passare. E’ chiaro, tuttavia, che si tratta di voti concessi non sulla base di una meditata strategia politica, ma sotto la sferza della necessità e dietro l’incubo del default.

I grandi partiti italiani sono insomma diventati afasici e rischiano, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 31 gennaio, di apparire irrilevanti, se non inutili. Ma la ragione profonda di tale afasia non inizia col Governo Monti, bensì molto prima. Essa è infatti legata, secondo Galli della Loggia, al ‘peccato originale’ dei partiti della Seconda Repubblica: aver espunto dal proprio orizzonte qualsiasi serio “discorso sull’Italia”, sulla sua storia, sui suoi problemi, sul suo futuro. Le culture della Prima Repubblica, almeno sino agli anni ’70-’80, si fondavano su una lettura approfondita della storia italiana, su una radiografia dei problemi del Paese e, di conseguenza, su una certa idea del suo interesse generale. Tutto questo, secondo Galli della Loggia, non c’è più: con la fine della Prima Repubblica il discorso pubblico si è focalizzato sull’Europa (dove si trattava di entrare o di rimanere) e troppo spesso è sembrato che per diventare Europei gli Italiani dovessero buttarsi “dietro le spalle l’Italia e il fardello della sua storia”. Se i partiti italiani vogliono ritrovare il loro ruolo e la loro identità – e con essi l’ascolto dell’opinione pubblica – devono invertire la rotta: parlare non soltanto di dove vada il mondo, ma anche e soprattutto di “dove vada o voglia andare l’Italia”.
Come tutti gli studiosi dotati di antenne sensibili, Galli della Loggia ha messo a nudo un punto nevralgico e profondo della crisi italiana: il fatto che l’Italia non venga più pensata. Certo, il nostro Paese viene quotidianamente raccontato, criticato, variamente deprecato. Ma non viene più pensato nel senso profondo del termine: non ci si sforza più di calarsi nella sua vicenda individuale, di ricostruirne le origini e il tormentato sviluppo, di tornare a leggere e interrogare quegli autori che gli hanno dato voce e volto. Questa incapacità di pensare l’Italia non può essere, però, attribuita solo ai partiti politici. Essa dipende anche e forse soprattutto da fattori culturali di lungo periodo, il più importante dei quali è la progressiva perdita, nell’ultimo cinquantennio, di sensibilità e forma mentis storica e il parallelo affermarsi di una mentalità scientista, tutta tesa a rinvenire regolarità, a formulare previsioni e ad elaborare soluzioni ‘tecniche’. Edmund Burke sosteneva che la politica è una scienza sperimentale; ma aggiungeva che il suo laboratorio è la storia. La politica non è soltanto una tecnica, con il suo corollario di strategie operative (di cui si occupano gli ‘esperti’); essa porta con sé una dimensione intrinsecamente storica, che le conferisce un carattere non del tutto prevedibile, né dominabile e proprio per questo la rende una vicenda libera e al tempo stesso drammatica. Solo chi ha coscienza di questa dimensione – e ne vive il pathos profondo – riesce a parlare (per riprendere le parole di Galli della Loggia) al cuore, alla mente e soprattutto alle speranze degli uomini. I veri leader, anche se possono essere aiutati dagli ‘esperti’, sono leader perché portano dentro di sé questo pathos (lo si vede bene in Iron Lady, il film appena uscito su Margaret Tatcher).

Esiste dunque un problema culturale, un problema di formazione, di cui dovrebbero farsi carico gli uomini di cultura e i luoghi della cultura. Qualcuno lo sta facendo: penso all’Istituto italiano di studi storici (fondato da Benedetto Croce), che ha inaugurato pochi giorni fa una serie di “Seminari sulle fonti della cultura e dell’identità italiane”; penso all’Istituto di Politica, che ha messo in cantiere un progetto di ricerca sul pensiero politico italiano (largamente ignoto, soprattutto ai giovani). Sono iniziative lontane dal chiacchiericcio quotidiano sulla politica, che spesso si legge sui giornali e si ascolta in televisione. Implicano studio, riflessione, tempi lunghi. Ma forse sono iniziative come queste che possono contribuire a riaprire quel “discorso sull’Italia” che giustamente Galli della Loggia considera decisivo per il futuro del nostro Paese.

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