di Alessandro Campi
Come sempre in Italia non si riesce a trovare il colpevole. Fatto il pasticcio, nessuno se ne assume la responsabilità. Chi ha voluto in Consiglio dei ministri l’eliminazione dal nuovo codice degli appalti – già controfirmato dal Capo dello Stato – del comma 2 dell’articolo 21, quello che consente all’Anac presieduta da Raffaele Cantone, attraverso una raccomandazione vincolante, di bloccare un appalto pubblico appena riscontrata la minima irregolarità senza aspettare l’intervento della magistratura ordinaria?
Si tratta in effetti di un superpotere, del quale peraltro sinora non ci si è mai avvalsi, ma il cui effetto deterrente almeno sulla carta dovrebbe apparire chiaro. Così come appare chiaro che si tratta di una misura che risponde ad una idea della lotta alla corruzione condotta sulla base di strumenti eccezionali e in una condizione che si considera di grave e continua emergenza. Non a caso, fu immaginato all’indomani degli scandali sugli appalti dell’Expo milanese e di Mafia capitale.
Il blitz governativo ha irritato Cantone e dato la stura a inevitabili (e in parte giustificate) polemiche politiche. Alla revisione del Codice degli Appalti, ad un anno dalla sua entrata in vigore, stava lavorando da tempo la commissione Lavori Pubblici del Senato. La decisione di Palazzo Chigi suona perciò come una violazione dell’autonomia parlamentare e appare quindi di dubbia legittimità giuridica.
Ma il problema è politico. C’è davvero la volontà di ridurre il potere di intervento dell’Anac (sino ad adottare un provvedimento così forte, anche se in una forma per così dire anonima) oppure più semplicemente si è prodotto un corto circuito tra livello politico e livello tecnico-burocratico? Quest’ultima, paradossalmente, è l’ipotesi più inquietante. Starebbe a significare, da un lato, che i ministri firmano provvedimenti di cui ignorano il contenuto. Con tutto ciò che può desumerne, di negativo, il normale ed esterrefatto cittadino: se chi governa opera con simile pressappochismo su materie tanto delicate polemizzare sul dilettantismo del M5S diventa francamente un esercizio di dubbio gusto e persino controproducente.
Dall’altro lato, si può anche pensare che la politica abbia come abdicato alla sua funzione di indirizzo e controllo per consegnarsi nelle mani dell’alta dirigenza ministeriale, che si muove ormai secondo le proprie convenienze corporative e professionali. La manina o manona che ha cancellato dal provvedimento il comma contestato, nel silenzio sbadato o complice della politica, potrebbe essere stata, in questo caso, quella di uno dei tanti burocrati o commis d’état insediati nei gabinetti ministeriali, forse preoccupato nel vedere le proprie competenze in materia di procedure d’appalti insediate da un potere esterno alla tradizionale macchina amministrativa qual è appunto l’Agenzia anticorruzione.
Vedremo nelle prossime ore se si riuscirà a venire a capo di questo giallo di palazzo. Ciò detto, per non lasciare spazio solo alla facile indignazione e all’ipocrisia pubblica, il problema di un’Anac che concentra su sé troppo poteri, ma solo perché la politica impotente glieli ha consegnati, esiste ed è reale. E lo stesso Cantone, a leggere con attenzione le sue interviste e dichiarazioni pubbliche, ne è ben consapevole. Che ci fosse un’Agenzia indipendente chiamata a lottare contro la corruzione sulla base di competenze e funzioni in senso lato straordinarie, mentre la politica liberatasi dalle responsabilità poteva dedicarsi alla denuncia pubblica e demagogica del malaffare, con l’idea di intercettare i voti e i consensi degli italiani arrabbiati, ha fatto comodo alla stessa politica. Salvo appunto accorgersi strada facendo di aver creato, per così dire, un mostro tecnico-politico che, in barba ad ogni idea liberale di divisione dei poteri, ha finito per riassumerli e concentrarli tutti. L’Anac è infatti diventato ormai un organo sostanzialmente politico, ovviamente privo di legittimazione popolare vista la sua natura tecnica, che si vorrebbe sovrintendesse alla moralità pubblica e che tutti invocano come una sorta di ultima istanza. Ѐ altresì una struttura burocratica indipendente che agisce sulla base di una legislazione creata ad hoc. Ѐ infine un organo con competenze giudiziarie autonome. Il rischio di conflitti, confusione nei ruoli e sovrapposizioni con gli altri organi e poteri dello Stato, a partire proprio dalla magistratura, è più che evidente.
Ma questo è il risultato quando, come sempre in Italia, si vuole rendere stabile e permanente ciò che è stato concepito nella logica dell’emergenza e dell’eccezionalismo. Quando cioè si pensa di affidarsi stabilmente al potere cautelare, che agisce e colpisce in via preventiva, invece che al vaglio procedurale ordinario o al giudizio che scaturisce da una sentenza.
Ma se questo è il problema (tale, lo ripetiamo, anche per lo stesso Cantone, che probabilmente comincia a non poterne più di essere strattonato da ogni lato e di essere utilizzato come alibi dietro il quale la classe politica nasconde la propria incapacità a decidere) bisognerebbe avere il coraggio politico di affrontare la questione apertamente, facendone oggetto di confronto parlamentare e di dibattito pubblico, invece di ricorrere – come probabilmente si è pensato di fare – a misure surrettizie o a colpi di mano.
L’emergenzialismo è la dottrina che per definizione mette fuori gioco i poteri ordinari: si può giustificare e accettare solo per un tempo limitato. Ma se diventa a sua volta normale e permanente rischia di rappresentare un’alterazione delle regole del gioco, tanto più grave quando troppi poteri e troppe competenze si assommano, con la scusa di dover affrontare una situazione eccezionale, in un’unica struttura o, peggio, in una sola persona.
Visto che il pasticcio è stato fatto, fatta salva la volontà dichiarata dallo stesso Presidente del Consiglio di voler rimediare al più presto, che almeno sia l’occasione per ragionare seriamente su come combattere la corruzione restituendo alla politica responsabilità e doveri che quest’ultima, se vuole rilegittimarsi agli occhi dei cittadini e ritrovare un po’ della sua dignità perduta, non può sfuggire o delegare ad altri.
* Editoriale apparso su “Il Mattino” di Napoli del 21 aprile 2017
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