di Luca Marfè
NEW YORK – Sei mesi e i giochi si complicano. Trump deve aver capito che guidare un Paese non significa gestire un’azienda né chiudere una transazione immobiliare né condurre un reality show.
Tra le mura di una Casa Bianca irriconoscibile rispetto a quella degli Obama, l’ultimo dei colpi di scena più clamorosi è rappresentato senz’altro dalle recenti dimissioni di Sean Spicer.
Il portavoce del presidente che, con il suo atteggiamento brusco e talvolta approssimativo al punto da inciampare in vere e proprie gaffe (incancellabile quella su Hitler che non avrebbe «mai usato armi chimiche come Assad»), è stato costretto evidentemente già troppo a lungo nel suo ruolo di “parafulmine”, preso d’assalto da un lato dagli agguerriti mastini del giornalismo americano e dall’altro dagli scatti di ira del tycoon.
Pressioni insostenibili, aggravate di colpo dalla nomina di Anthony Scaramucci a direttore della comunicazione. Un incarico che, seppur ad interim, era nelle mani dello stesso Spicer. E così, la combinazione tra un rapporto già di per sé difficile con il capo e la repentina frenata sul fronte delle ambizioni personali oramai deluse chiude il suo capitolo in quel di Washington.
Rischia, però, di aprirsene uno nuovo, non necessariamente negativo.
Scaramucci, infatti, pur non avendo grossa esperienza nel settore dei media, se non per le sue recenti “arringhe” televisive a favore del presidente, anticipa a chiare lettere di voler apportare un contributo di serenità proprio attorno al tormentato rapporto con la stampa. Uno stile almeno apparentemente più accomodante che farebbe senz’altro un gran bene al Paese. Resta da capire, però, quanto possano effettivamente ammorbidirsi le penne dei quotidiani e i volti della televisione e ancor di più quanto lo stesso Trump possa viceversa coltivare un concreto interesse a mantenere alti i toni del dibattito, divenuti già in campagna elettorale addirittura una necessità per chi, come lui, ha da sempre abbracciato l’idea di una politica agitata e strillata.
Una buona notizia, comunque, per il governo Gentiloni o per chi verrà poi, considerate le radici italiane di Scaramucci che potrebbero agevolare un dialogo più fluido e ancor più costruttivo tra la nostra diplomazia e quella americana.
Al di là dell’estetica, che a certi livelli è anche e sempre sostanza, e delle relazioni tra l’universo Trump e gli altri attori, interni ed internazionali, è assai più vasto il quadro degli elementi e delle rispettive confusioni che affollano questa fase così convulsa.
Tra questi, vi è senz’altro uno dei volti passati in secondo piano, ma di primaria importanza per la tenuta dell’amministrazione in carica: quello del segretario di Stato Rex Tillerson.
Personaggio molto diverso dal tycoon, più istituzionale se non addirittura silenzioso, praticamente a digiuno di diplomazia fino al giorno della sua nomina, ma calatosi con una certa professionalità nelle vesti di titolare degli Esteri.
Fatto sta che le distanze personali e politiche tra i due aumentano al punto da spingere alcuni network statunitensi a mettere in preventivo quella che è già stata etichettata come “Rexit”: l’eventuale uscita di scena, appunto, di Rex Tillerson.
Persone a lui più vicine insistono attorno all’idea che il segretario voglia quantomeno tagliare il traguardo del primo anno, ma nell’ambito del terremoto tuttora in corso oramai nulla è da escludere e aleggia sempre più nitido lo spettro di un’altra improvvisa rottura.
Ciliegina amara sulla torta, una riforma sanitaria che non c’è.
Alla promessa di abolire e sostituire Obamacare ha fatto seguito il nulla o quasi. Il dibattito in seno agli stessi repubblicani, infatti, sembra essersi infilato in un vicolo cieco e rischia di ripercuotersi con un terrificante effetto domino sull’altrettanto attesa riforma fiscale e, più in generale, sulla fiducia in questo presidente. Un presidente che, tra impasse, rimpasti e rotture (e di certo non per fantomatici impeachment) potrebbe davvero rimanere solo. E cadere.
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