di Luca Marfé
Doveva essere il weekend di Trump-Xi, è diventato quello di Trump-Kim.
Vigilia di G20, gli occhi del mondo sono puntati sul bilaterale più atteso dell’anno. Donald Trump e Xi Jinping si incontrano a margine dei lavori di Osaka, discutono di dazi, si concedono una tregua. Gli Stati Uniti allentano la presa su Huawei, la Cina promette di spendere in forniture, prodotti agricoli e generi alimentari a stelle e strisce. Una nuova distensione, con i negoziati che ripartono, che almeno per il momento accontenta tutti.
Non c’è nemmeno il tempo di brindare, però, che arriva il colpo di scena. Colpo di scena che, come spesso accade quando c’è di mezzo The Donald, si materializza a mezzo Twitter, con un “cinguettio” che cambia l’agenda e anche un po’ il mondo.
Sto lasciando il Giappone, sono diretto a Seul, se Kim è in ascolto, ci vediamo per una stretta di mano e un saluto nella DMZ.
Proprio così, in questi termini, con questi toni.
Per annunciare, quasi come se nulla fosse, la prima volta in assoluto di un presidente americano in carica presso la “Zona Demilitarizzata” che, dal 1953 e a fronte di nessun armistizio ancora oggi mai firmato, divide la Corea del Nord da quella del Sud lungo la linea del 38esimo parallelo.
Un attimo dopo è a Seul con il suo omologo Moon, sottoscrive con lui un migliore accordo commerciale e rilancia:
«Sto andando al confine, vediamo cosa succede».
Sembra la scenografia di un film, ma è la Storia.
Kim c’è, sorride.
Trump sfila da solo nel centro di uno dei corridoi militarmente più “stretti” del pianeta.
I due camminano l’uno verso l’altro, The Donald esibisce una volta di più la sua stretta vigorosa e poggia la mano sinistra sulla spalla di un dittatore che nelle immagini della tv americana, per affabilità e cortesia, ha tutta l’aria di essere un vecchio amico, uno disposto a tornare al tavolo dei negoziati nucleari con ragionevolezza nonché desideroso di un nuovo corso. Per lui e in particolare per la sua gente.
L’ultimo dei Kim è emozionato, nonostante giochi in casa.
L’arancione, invece, ostenta sicurezza e si trattiene ancora un po’, nel mezzo di quell’immagine che ossessivamente cerca: quella dello statista, quella del genio delle trattative, quella di chi è anche odiato, ma soltanto perché è il più bravo.
Attraverso qualunque lente politica si voglia guardare a questa giornata, fosse anche la più ideologicamente avversa, a Trump vanno riconosciute a scena aperta almeno tre cose: la sfrontatezza necessaria a cambiare le regole del gioco, in questo caso quello della diplomazia; il genio dell’improvvisazione, che gli stessi diplomatici deve aver mandato in tilt; il coraggio a tratti strampalato di aver stravolto il corso della Storia.
Dell’ennesimo incontro con Xi, quasi non se ne ricorda già più nessuno.
Del terzo incontro con Kim, potremmo ricordarcene tutti, davvero per un bel po’.
Se ne ricorderanno di certo i libri di domani e sempre.
C’è chi ha vinto premi Nobel per molto meno.
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