di Luca Marfè

 

MarfèNEW YORK – A circa un anno di distanza dalla storica notte elettorale dell’8 novembre scorso, il livello di isterismo che continua ad orbitare attorno al fenomeno Trump è a dir poco sconcertante.

Ed è ancor più sconcertante che, nella media, gli italiani siano molto più nervosi degli stessi americani i quali, viceversa, avrebbero forse più diritto di noi ad essere meno lucidi, proprio perché coinvolti.

I colossi dell’informazione a stelle e strisce offrono grosso modo un quadro identico, raffermo, da molto più di un anno a questa parte.

Le agenzie di mezzo mondo si limitano a riprenderne i contenuti e così, a cascata, giornali e televisioni.

Nessuno o quasi prova ad andare oltre.

Ci si continua a riempire la bocca di esclamazioni esasperate, si grida di tanto in tanto all’impeachment per tirare a campare, per sollevarsi un po’. Si perde completamente di vista la realtà di quell’America che non solo lo ha votato, ma che non è per nulla pentita di averlo fatto. Anzi.

Si dà ascolto agli stessi indici di gradimento che 12 mesi fa ritraevano una Hillary Clinton avanti di mille e più punti percentuali e che oggi vorrebbero raccontarci di un chissà quale crollo dei consensi o della popolarità traballante di un presidente cui proprio di quella popolarità, soprattutto nell’ambito di certi salotti newyorkesi e più in generale considerati “chic”, importa meno di zero.

Trump parla alla sua metà (minoritaria, ma vincente) della nazione.

E lo fa sbattendo la porta in faccia agli immigrati, sabotando l’Obamacare, promettendo miracoli sul fronte delle tasse (occhio perché potrebbe addirittura riuscirci), alzando puntualmente i toni con Corea del Nord e Iran, facendo leva su un nazionalismo che lui o chi per lui hanno trasformato nello slogan (geniale) “America First”.

Sposando, in estrema sintesi, una linea diametralmente opposta a quella che qualcuno in passato aveva pensato di poter imporre ad oltranza, noncurante di un’altra faccia di questo Paese, meno bella in chiave estetico-narrativa, ma non per questo indegna di essere ascoltata.

Forse sarebbe ora di smetterla con le cantilene di un’opposizione, mediatica e di partito (che peraltro sono una cosa sola), sprovvista di leader e di idee.

Forse sarebbe il caso, almeno per noi che tutta questa vicenda non la viviamo direttamente sulla nostra bandiera, di provare a capire.

E forse, per concludere, sarebbe il caso che lo facessero anche gli americani.

Non mi sorprenderebbe se al continuare in questo modo, intestardendosi ogni giorno di più nel remare contro un po’ a prescindere senza preoccuparsi di ricostruire un partito democratico incapace di qualsivoglia autocritica ed evidentemente ai suoi minimi storici, corrispondesse non soltanto un Trump in grado di portare a termine il suo primo mandato, ma, udite udite, un uomo capace di vincere ancora.

In un gioco ottuso fatto di “muro contro muro”, infatti, potrebbe spuntarla di nuovo lui. Lui che del “Muro” ha saputo fare non soltanto uno spot elettorale, ma una maniera, tanto discutibile quanto efficace, di vivere la politica. E di vincerla.

 

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