di Luca Marfé
NEW YORK – Un presidente che mantiene le sue promesse. Una vera e propria rivoluzione nel tempo di una politica che, negli Stati Uniti ma non solo, ha abituato elettori ed eletti ad un mare di divergenza tra il famoso “dire” e l’altrettanto famoso “fare”.
Tra conseguenze e rischi che ne derivano, di questo almeno gli va dato atto: Trump è una colossale eccezione.
Il motivo è molto semplice ed è sotto gli occhi di tutti, tanto dei sostenitori convinti fino alla testardaggine, quanto degli oppositori terrorizzati dalle sue iniziative: non sta facendo altro che dare séguito alle sue parole.
E di parole, sin dalle prime battute di una campagna elettorale lunga e velenosa, ne sono volate parecchie. E di fatti, mai come nei giorni scorsi, se ne sono cumulati altrettanti.
Ultima mossa in ordine cronologico, quella israeliana.
Riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato ebraico è un azzardo, secondo molti un errore e basta. È, tuttavia, esattamente ciò che il tycoon aveva dichiarato di voler fare. Un po’ per ragioni legate agli equilibri (squilibri) internazionali: affiancare con fare deciso l’alleato Netanyahu. Un po’ per motivi di carattere interno: distrarre dalle beghe del Russiagate e, soprattutto, saldare il debito con quell’elettorato sionista che lo ha votato.
È, peraltro, ciò che lo stesso Congresso statunitense aveva stabilito con una legge nell’oramai lontano 1995. Una decisione ripresa a parole da tanti presidenti, ma sistematicamente rinviata di sei mesi in sei mesi.
Trump interrompe la tradizione di quiete, si guadagna l’etichetta di chi tiene fede alla parola data, ma apre scenari imprevedibili. Hamas alza la voce, minaccia 72 ore «di rabbia», le strade sono già in rivolta e le conseguenze sono già ben visibili.
I rischi, inoltre, sono ancora più consistenti: da un lato, a causa di un sorprendente “effetto domino”, altri Paesi potrebbero infilarsi nella scia degli Stati Uniti e spostare le loro ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme, contribuendo così ad incrementare ulteriormente la tensione nell’intera area. Dall’altro, cosa ancor più banale e al tempo stesso drammatica, le scintille potrebbero tradursi in una guerra vera. L’ennesima di un conflitto israelo-palestinese che sembra non conoscere fine né vie d’uscita.
Un fronte del tutto diverso, eppure in qualche maniera simile, è quello relativo alla riforma fiscale. Anche riguardo alle tasse, infatti, il presidente non ha fatto altro che mantenere una sua promessa, vero e proprio cavallo di battaglia della folle corsa alla Casa Bianca.
Aliquote giù di colpo, che quasi si dimezzano passando dai 35 ai 20 punti percentuali, e umore alle stelle per piccoli e grandi imprenditori. Di tradizione repubblicana, ma non solo. Perché negli Stati Uniti, quando si parla di business, l’ideologia politica tende ad arretrare.
A quale prezzo, però? Quali le possibili conseguenze di questo taglio epocale?
Una voragine di deficit, innanzitutto. Per un debito pubblico che è già un macigno e che non ha eguali al mondo. E poi uno smantellamento ulteriore di uno stato sociale che a queste latitudini è già, culturalmente prima ancora che politicamente, ridotto ai minimi termini.
La verità è che a Trump di questo importa poco o nulla. Come gli importa poco o nulla di un’eventuale escalation in Medio Oriente. L’unica cosa che conta, al cospetto di un ego spropositato, è sostenere la sua figura di uomo forte al comando e, parallelamente, compattare i ranghi dei suoi elettori ancor più che dei suoi collaboratori.
Insomma, un politico che a Washington, la città delle promesse infrante, fa davvero ciò che dice rischia in un modo o nell’altro di fare la Storia.
E la vanità, la sua maniera oramai tipica di condurre il gioco, gli impedisce di percepire il peso di scelte soltanto apparentemente vincenti che potrebbero viceversa rivelarsi degli errori irreparabili.
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