di Leonardo Varasano
Quello lanciato lo scorso 27 agosto da Ernesto Galli della Loggia attraverso il “Corriere della Sera”, non è nient’altro che l’ultimo grido di dolore – in ordine di tempo – sullo stato, troppo spesso pietoso, dei nostri beni paesaggistici e culturali. Lo “spettacolo apocalittico” di una costa devastata dall’abusivismo – nella fattispecie quella della Calabria, ma lo stesso potrebbe dirsi per altre regioni – è l’emblema del “bello” che diventa “bruttezza assoluta”, del “bello” sul punto di sparire, del “bello” che da risorsa viene brutalmente degradato in occasione economica persa.
E che il “bello” renda non v’è dubbio. Secondo una recente ricerca del Censis, il valore aggiunto prodotto dalla bellezza in Italia è pari a 74,2 miliardi di euro e dà lavoro a un milione e 370mila persone. Siamo stracolmi di “bello”, aggiunge l’indagine, ma non ce ne prendiamo cura come sarebbe necessario e non lo valorizziamo come si dovrebbe. Quali sono i settori produttivi legati alla bellezza nazionale, alla qualità e al buon gusto? La gamma, spiega l’istituto di ricerca, è ampia e variegata. Si va dal cibo ai gioielli, dal tessile alle calzature, dal design ai materiali per l’edilizia, tutti comparti che ancora trainano il commercio estero.
La “quantità di bellezza” più importante è però quella inerente il turismo e i nostri beni ambientali e culturali. I delicati paesaggi, le antiche città, i pittoreschi centri costieri, e, più in generale, l’inestimabile patrimonio naturale e artistico di cui l’Italia dispone costituisce un unicum che tutto il mondo invidia, ammira e talvolta, purtroppo, deride. Sì, deride. Per lo stato penoso in cui versa tanta parte dei nostri beni culturali. Pompei – il cui degrado provocò, com’è noto, le dimissioni del ministro Bondi – continua a languire in condizioni così disperanti che pochi mesi fa il quotidiano francese “Le monde” si è chiesto, con sprezzo, se il sito sia “ancora di competenza dell’Italia”.
Il caso campano – come conferma i recenti crolli che hanno interessato la Fontana di Trevi e una parte del muro romano del Pincio – non è però un’eccezione. Le situazioni che dovrebbero farci arrossire di vergogna non sono purtroppo poche. Il nostro patrimonio artistico e naturalistico è troppo spesso vittima dell’incuria, della sciatteria, del dolo (si pensi ai “ripari” non realizzati al tempo debito, come invece suggeriva Machiavelli) e della colpa grave (si pensi agli sciagurati incendi delle scorse settimane).
L’Italia è tutta un diadema di città, è la “Saturnia tellus”, la terra baciata dal cielo di cui parlava Virgilio. Abbiamo la quota di capolavori più importante al mondo e non sappiamo farla fruttare. Altri, con una materia prima inferiore, riescono a fare meglio. In Canada un totem indiano è valorizzato come se fosse il Colosseo. E anche la derelitta Grecia, in certi casi, riesce a promuovere le proprie bellezze meglio di noi. Da questa condizione discende una conseguenza inevitabile: la capacità di attrazione turistica del nostro Paese è molto inferiore al potenziale delle meraviglie di cui disponiamo.
Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fondo Ambiente Italiano (FAI), ha fotografato lo stato della nostra “quantità di bellezza” culturale nel recente volume “Per un’Italia possibile. La cultura salverà il nostro Paese?” (Mondadori, pp. 125). Dal libro, appassionato e lodevole, a cavaliere tra denuncia e speranza, emerge innanzitutto la miopia della classe dirigente italiana degli ultimi decenni. Una miopia acuta che porta a considerare le nostre bellezze artistiche più come un peso che come un’opportunità. Mentre il consumo del territorio avanza in maniera dissennata, troppi siti archeologici, troppi monumenti sopravvivono in condizioni di oscena sporcizia, deturpati dai vandali o abbandonati a se stessi.
All’inerzia della politica si contrappone una significativa vivacità civica di cui il FAI – con le sue Giornate di Primavera e con il suo piccolo esercito di volontari mossi dalla nobile convinzione che il riscatto del Paese possa nascere dalla bellezza – è in qualche modo l’emblema. Lo zelo di pochi però non basta. I nostri beni culturali non possono restare la ciliegina dell’Italia, ma devono diventarne la torta. Investire nella “bellezza nazionale” significa investire nel nostro futuro; significa, come conferma l’incremento degli ingressi ai musei, favorire l’uscita dalla crisi. Il ragionamento, sostiene Ilaria Borletti Buitoni, è elementare: “Quando a una famiglia che ha perso quasi tutto rimane solo la casa, deve cercare di mantenerla al meglio, perché se l’abbandona, lasciandola cadere a pezzi, alla fine non rimarrà nulla da cui ripartire”. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell’Italia. Abbiamo un prodotto che nessuna Cina potrebbe mai replicare: dobbiamo urgentemente provvedere a tutelarlo e a promuoverlo.
La difesa del paesaggio e del patrimonio artistico deve diventare al più presto l’impegno principale per rilanciare il nostro Paese. Affinché, come scriveva Petrarca a Cola di Rienzo e al popolo Romano (1347), “l’Italia che languiva con il suo capo reclinato” possa levarsi sul gomito e balzare in piedi “intatta e felice”.
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