di Alessandro Campi
L’invito a isolare le responsabilità penali per definizione individuali, colpendole duramente se provate, e ad evitare accuse sommarie e generiche o attribuzioni collettive di colpa, rischia di apparire, dopo la bufera mediatico-giudiziaria che ha investito Roma, persino patetico. In ogni caso, sembrerebbe un invito mal indirizzato o fuori tempo. La tentazione sarebbe infatti quella di cedere al sentimento di denuncia e riprovazione, verso tutto e tutti, verso la politica in ogni sua espressione, che molti cittadini in questo frangente coltivano. Ma invece di aggiungere macerie alle macerie, abbandonandosi ai processi sommari e agli insulti, non è preferibile trarre da questa vicenda, per quanto possibile, qualche lezione salutare, che aiuti a cambiare rotta a questo Paese ormai disperato?
Si capisce ad esempio la ragione – strumentalmente politica, in parte dettata da comprensibili fattori emotivi – per la quale alcuni stanno chiedendo in queste ore lo scioglimento del Comune di Roma per infiltrazioni mafiose. Ma una simile débacle istituzionale, che comunque dovrebbe essere sorretta da inoppugnabili ragioni tecnico-legali e non rispondere a un generico bisogno di cambiamento e trasparenza, è davvero la risposta migliore a fronte del verminaio politico-affaristico che ci è stato messo dinnanzi agli occhi? Per quanto grande e articolata fossa la cupola che inquinava la politica romana, forse quest’ultima non era in blocco asservita ai comandi di un gruppo di malavitosi. L’esistenza di una corruzione capillare non implica una corruzione assoluta. Se esiste – come è certo anche in questo caso – una riserva pubblica di onestà, competenza e decenza, tra rappresentanti del popolo e funzionari dell’amministrazione, da qui converrebbe ripartire, a meno che non si ritenga che la politica può rigenerarsi solo dopo averne fatto tabula rasa. Lo squallido scenario venuto a galla dovrebbe anche servire per separare definitivamente i farabutti che usano la politica come pretesto per arricchirsi, finendo per prendere ordini e soldi da avanzi di galera, da chi la pratica mosso da una qualche passione civile, non per affossarli tutti insieme in attesa di un mondo perfetto che tanto non verrà mai.
Ciò detto, anche i politici perbene, che meritano di poter continuare il loro impegno e che anzi proprio adesso vanno sostenuti con più forza, dovrebbero farsi molte domande su quanto accaduto sotto i loro occhi, per ricavarne degli ammonimenti per il futuro. Si può ad esempio giustificarsi dicendo di non sapere chi fossero certi personaggi con i quali, senza averne condiviso i maneggi criminali, si sono comunque avute delle frequentazioni o dei contatti anche indiretti? Ecco, un politico serio non può distrarsi o comportarsi con leggerezza nelle sue relazioni pubbliche e istituzionali, come invece a Roma sembrerebbe essere stata la regola. Una buona politica è probabilmente una politica che torni ad essere selettiva, che stabilisca dei filtri e dei criteri di affidabilità, non rispettando i quali – come si è visto in Italia in questi anni – si rischia di essere travolti dal discredito e di trovarsi alla mercé degli avventurieri. Serve una maggiore prudenza, o semplicemente più accortezza, nella scelta dei propri collaboratori o interlocutori: una regola peraltro elementare e antica, ma che evidentemente è stata dimenticata.
Se ciò è successo, naturalmente, non è per caso. Una politica destrutturata sul piano organizzativo, priva di addentellati nel territorio, priva altresì di un suo progetto culturale intrinseco, dunque votatasi solo al pragmatismo e al fare, è inevitabilmente esposta alle infiltrazioni di chi – proprio perché privo di orizzonti ideali e interessato unicamente al guadagno – nelle sigle di partito vede solo un mezzo attraverso il quale incunearsi nella macchina pubblica per lucrare a danno della collettività. C’è insomma da ricostruire il tessuto della politica, partendo in particolare dal basso, dove esso appare da anni più slabbrato: è infatti nel livello periferico-amministrativo, come mostrano l’esperienza e il susseguirsi nel tempo di scandali e inchieste, che si è prodotta più facilmente quella commistione dei ruoli e delle funzioni che ha favorito la degenerazione affaristica del governo locale.
Il male dei partiti organizzati di una volta erano le correnti, nonché i loro apparati pletorici, che per essere sostenuti necessitavano di risorse finanziarie spesso attinte attraverso finanziamenti illeciti (come dimostrò Tangentopoli). Il male dei partiti liquidi di oggi è se possibile peggiore ed è rappresentato dalle cricche o consorterie che, senza più nemmeno avere legami organici col centro, senza più nemmeno alcuna giustificazione ideologica o ideale, finiscono per incistarsi al loro interno sul territorio con l’unico obiettivo di fare affari coi soldi pubblici. Ancora una volta è un problema di filtri e barriere che le forze politiche debbono tornare ad imporre a coloro che entrano nei loro ranghi, invece di accogliere chiunque ne faccia richiesta, ivi inclusi i malintenzionati.
Quel che si vorrebbe sperare è che il “mondo di mezzo” emerso a Roma sia in realtà un mondo vecchio o declinante, nato e consolidatosi solo grazie allo sbandamento che l’Italia ha vissuto negli ultimi due decenni, trascorsi invano nell’attesa di stabilizzare nuovi equilibri istituzionali. Ora ci sono a livello nazionale degli interessanti segnali di cambiamento il cui interprete, piaccia o meno, è Matteo Renzi, che non a caso molto insiste sulla necessità di spezzare le logiche consociative e corporative che hanno per troppo tempo dominato le relazioni di potere in questo Paese. E quello romano è appunto un caso esemplare di amalgama-commistione tra destra e sinistra, tra politica e burocrazia, tra imprenditoria e amministrazione che annullando le differenze, le responsabilità e le competenze ha finito per produrre opacità e dunque malcostume affaristico. Bene, questo sforzo che si sta facendo al centro di rinnovare la prassi politica, le sue articolazioni istituzionali e le sue logiche di funzionamento andrebbe perseguito a maggior ragione al livello delle autonomie e degli enti locali, che sembrano essere divenuti il vero punto debole – quanto a sprechi, inefficienza, bassa qualità del personale politico, clientelismo e corruzione – del sistema politico italiano.
* Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 6 dicembre 2014.
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