di Alessandro Campi

Un Cesare post-moderno? Un populista mediatico? Un demagogo dell’epoca digitale? Macché, nell’ora del tramonto il Cavaliere s’è rivelato – smentendo una schiera di esegeti – nella sua vera natura. L’abbiamo immaginato come un innovatore eccentrico e trasgressivo, come un imprenditore geniale e risoluto piombato sulla scena politica con l’ambizione di rivoltarne consuetudini e linguaggio, e invece eccolo lì, nei panni suoi più autentici: quelli di un tattico furbo e maldestro, nello stile della tanto vituperata (e oggi persino rimpianta) Prima Repubblica, di un politicante calzato e vestito che le prova tutte prima di mollare la poltrona, di uno statista levantino e bugiardo che i trucchi e i sotterfugi del Palazzo li conosce tutti e li applica alla lettera.

Ci ha spiegato per anni di aver cambiato le regole del gioco della “vecchia politica”, barocca e parolaia, addirittura di aver imposto una nuova “costituzione materiale”, in luogo di quella scritta ampollosa e fuori dal tempo, di essere uno che non ama le forme e i formalismi ma la sostanza delle cose e il parlare chiaro, di preferire le decisioni nette e irrevocabili al compromesso e alle discussioni.

E invece – nell’ora più buia dell’Italia, mentre tutto precipita – eccolo prendere tempo e inventarsi strade politicamente oblique, eccolo cambiare idea ogni cinque minuti, indire interminabili vertici notturni da cui non esce nulla, promettere e blandire, prendersela con gli altri (sempre “traditori” nel suo gergo) e mai con le sue ormai proverbiali inconcludenze, dire una cosa per farne un’altra subito dopo, cambiare continuamente le carte in tavola avendo in testa solo la sua personale sopravvivenza.

L’uomo che si presentò al mondo, dietro una telecamera velata da una calzamaglia, dicendo dell’Italia “questo è il Paese che amo”, nel momento forse più drammatico della recente storia nazionale ha mostrato di amare solo se stesso (e le sue aziende). E di essere mosso non da una visione o da un grande sogno, ma da una minuscola ambizione di potere. E di essere, altresì, un cavilloso, un presidenzialista a chiacchiere che si attacca ai regolamenti parlamentari e a qualunque minuzia procedurale – di quelle che ha sempre detto di aborrire – pur di non fare l’unica cosa giusta: d-i-m-e-t-t-e-r-s-i, ora e subito, lasciando che il buon senso politico e lo spirito di responsabilità pubblica (quel che ne resta in questo sfortunato Paese) facciano il loro corso.

Ieri, per tranquillizzare i mercati, che sono come impazziti alla sola idea che il Cavaliere avesse partorito l’ennesima furbata per restare in sella a tempo indefinito, il Presidente della Repubblica ha dovuto ufficialmente spiegare che quelle del governo, per quanto dilazionate nel tempo o solo annunciate, sono da considerarsi dimissioni irrevocabili, causate dal definitivo venire meno della maggioranza parlamentare che lo sosteneva. E ha altresì dovuto chiarire – perché ormai il mondo solo di lui si fida – che i provvedimenti per affrontare la crisi saranno approvati al più presto. Non a fine mese o nella prima settimana di dicembre – secondo il fantasioso calendario immaginato da Berlusconi, con l’idea evidente di ricostruirsi nel frattempo l’ennesima maggioranza mercenaria – ma addirittura entro il prossimo sabato, anche se il Cavaliere ci sta provando a seminare nel maxi-emendamento trappole ed espedienti che lo rendano difficile da accettare per l’opposizione. Da ultimo – per depotenziare le ricorrenti invettive contro i tecnici che esautorano la politica – Napolitano ha nominato Mario Monti senatore a vita, lasciando così intendere quale sia la strada che ha in mente per salvare l’Italia dal fallimento.

Mentre tutto spinge in direzione di un governo d’emergenza, autorevole e fattivo come quello da lui presieduto non era più da un pezzo, Berlusconi invoca le elezioni anticipate. Per qualche remota ragione, è convinto di poterle persino vincere: magari gridando, dopo vent’anni di propaganda stucchevole, al pericolo comunista, o solo perché ha deciso di gettare nella mischia un giovane di belle speranze costruito a sua immagine e somiglianza e del quale gli italiani si dovrebbero fidare come hanno fatto per anni col suo mentore. C’è da sperare che nemmeno i suoi – almeno quel pezzo di centrodestra che ancora possiede senso della realtà, spirito istituzionale e un qualche sentimento del bene collettivo – lo seguano su questa strada. E in effetti, a leggere ieri le dichiarazioni di Lupi, Formigoni, Micciché, Pisanu o Scajola, non sono pochi nello stesso Pdl a considerare il voto anticipato un azzardo più che una soluzione.

Ricorrendo al giudizio inappellabile del popolo sovrano, contro ogni ipotesi di governo tecnico o di unità nazionale, il Cavaliere e i berlusconiani di stretta osservanza dicono di voler salvare l’essenza della democrazia maggioritaria e bipolare, che sarebbe la più preziosa innovazione di questi ultimi vent’anni. In realtà, tentano solo di recuperare consensi approfittando del caos e del clima di scontro ideologico che una campagna elettorale, condotta in questa particolare congiuntura, inevitabilmente comporterebbe. Non è un caso che a spalleggiarli ci siano la Lega e Di Pietro, un altro che della confusione e dell’invettiva ha fatto la sua bandiera. Ma dov’è l’interesse del Paese nell’ipotesi di una campagna elettorale all’ultimo sangue e di un voto dal quale potrebbe nascere, sondaggi alla mano, un Parlamento paralizzato e ingovernabile?

Alla crisi economico-finanziaria dell’Italia, che è profonda e persistente, frutto di cause interne e non un’invenzione della propaganda anti-italiana come ci è stato raccontato per mesi, si è sommato strada facendo un attacco speculativo – divenuto drammatico nelle ultime ore, con le borse in picchiata e lo spread alle stelle – che non dipende dal livello (pure stratosferico) del nostro debito pubblico, ma dalla debolezza dimostrata sino ad oggi dal governo Berlusconi e dalla perdita di credibilità di quest’ultimo sulla scena internazionale, tra scandali e gaffes che ne hanno fatto un personaggio da commedia buffa agli occhi del mondo. Come uscire da una situazione tanto grave se non con un rinnovato spirito di unità e mettendo insieme le forze, se non dando vita ad un governo che da qui alla fine naturale della legislatura, grazie al sostegno di un’ampia base parlamentare, si preoccupi di rimettere i conti pubblici in ordine, di rilanciare l’economia e di restituire all’Italia il prestigio e il rispetto che le competono?

Berlusconi, chiuso nel suo bunker, circondato da avvocati che già pensano alle parcelle che perderanno, da esteti che sognano lo scontro finale e da ausiliarie bionde che si dicono pronte a immolarsi con e per lui, una simile prospettiva forse non la capirà mai, pensando che tutto ciò sia solo inciucio, ribaltone, vecchia politica, teatrino, tradimento o consociativismo deteriore, insomma roba da comunisti e democristiani, da poteri forti annidati chissà in quale segreta stanza. Ma c’è da sperare che se ancora esiste in Italia qualcosa che possa definirsi “classe politica” o “dirigente”, quale che ne sia il colore politico, si trovi presto il modo per uscire – tutti insieme, con orgoglio e decoro, unendo gli sforzi e le capacità – dalla palude nella quale stiamo affogando. Il Cavaliere si faccia da parte e s’insedi prima possibile un governo di unità nazionale. E che Dio c’aiuti.