di Francesco Battegazzorre*

La formazione del governo tecnico (o tecnico-politico) ha sollevato in alcuni la speranza che il nuovo esecutivo, relativamente libero dai vincoli partitici e dai problemi di conservazione del consenso, possa aggredire i principali problemi che il paese ha di fronte da tempo, primo tra tutti lo scardinamento della soffocante cappa di interessi costituiti che sembra ingessare la società e annientare ogni prospettiva di cambiamento. È una speranza comprensibile, specie se proiettata sulla disarmante inadeguatezza del governo precedente, ma che è prevedibilmente destinata ad andare delusa. Il governo tecnico può tamponare la situazione, ripristinare un minimo di credibilità del paese sulla scena internazionale, e forse svolgere un’utile funzione di decantazione del conflitto politico; ma non può affrontare con efficacia la sfida dell’intervento in profondità sul tessuto della vita economica e sociale. La risposta positiva a una tale sfida presuppone infatti che sia risolto preliminarmente un problema che è squisitamente politico: un problema per il quale l’esecutivo in carica è probabile che non sia culturalmente attrezzato, stante l’originale impasto managerial-burocratico che lo connota; ma che soprattutto, proprio perché “tecnico”, il governo è strutturalmente inadatto ad affrontare.

La sensazione prevalente in molti è che l’impiego del potere di governo in vista di questo o quell’obiettivo sia una questione di volontà o di determinazione. Ma il potere politico risente, per l’uso che se ne fa o se ne può fare, della sua dislocazione. In un paese come il nostro, per ragioni su cui è inutile tornare qui, essendo ben note, il potere politico è frammentato e disperso. L’utilizzo di quel potere in senso riformatore, che da varie parti si invoca, richiede che il potere sia concentrato: la dispersione infatti favorisce il potere di veto di qualsiasi forza sociale che si ritenga minacciata dal cambiamento, grande o piccola che sia. Perciò, il problema politico fondamentale che il nostro paese ha di fronte, per l’oggi e per il domani, è la concentrazione del potere di governo.

L’esperienza storica insegna che i processi di concentrazione del potere – prescindendo dalla via rivoluzionaria, che non è né percorribile né auspicabile – possono avvenire essenzialmente in due modi. Nel primo, una struttura di autorità esistente allarga progressivamente o bruscamente – sulla scia magari di qualche shock esogeno o endogeno – la propria sfera di influenza, a spese di altri organismi o istituzioni; nel secondo, una forza esterna irrompe sulla scena, scardina l’assetto istituzionale vigente e vi si sostituisce: in questo secondo caso, la questione delicata è se il potere così accumulato per via extra-istituzionale potrà tradursi col tempo in un ordinamento politico stabile, superando con successo la sfida dell’istituzionalizzazione. In entrambi i casi, se vi è istituzionalizzazione, la concentrazione del potere è compatibile con la limitazione e il controllo, e dunque la responsabilità, del potere stesso, e con la natura democratica del regime.

Nel mondo moderno, vi sono esempi di entrambi i percorsi. Per il primo, si può richiamare l’avvento della “presidenza imperiale” negli Stati Uniti; per il secondo, il passaggio dalla IV alla V repubblica in Francia. Il punto chiave è che, nelle condizioni peculiari della modernità, il processo di concentrazione del potere può avvenire soltanto con la mobilitazione e l’organizzazione di un seguito di massa. È questa la ragione di fondo per la quale un governo tecnico è strutturalmente inadeguato ad affrontare il problema. D’altra parte, il primo percorso – l’espansione del potere in capo a una struttura di autorità esistente – esige un assetto istituzionale morfologicamente e funzionalmente flessibile: il nostro è su entrambi i versanti rigido. E, ammesso che ci si arrivi, una riforma delle istituzioni condotta sotto l’egida dei partiti attuali è molto improbabile che si discosti significativamente dallo schema esistente: la frammentazione del potere tende ad alimentare se stessa.

È possibile che, nella situazione attuale, sia presente nella nostra comunità politica la disponibilità diffusa (e trasversale agli attuali schieramenti politici) a conferire sostegno a un progetto politico che promettesse di andare nella direzione qui accennata. Vari indizi sembrano confermarlo. Tuttavia, questo sostegno potenziale, anche se c’è, diventa operante solo nel momento in cui viene mobilitato e organizzato. Questo è il compito del leader politico. Ma la leadership politica non si inventa e non si improvvisa. In particolare, l’esercizio di una leadership efficace nella politica costituente consiste, semplificando un po’, in due cose: nella capacità di attrarre e conservare un largo sostegno, e nella capacità di spenderlo nella costruzione di una solida base di potere, suscettibile di istituzionalizzazione. Il fallimento politico dei due leader più genuinamente tali che il nostro paese ha visto all’opera nell’ultimo trentennio si può ricondurre alla mancanza dell’una o dell’altra di queste capacità: Berlusconi ha dato ampia dimostrazione di non disporre della seconda; Craxi, che probabilmente ne era provvisto, difettò nella prima. Non è irrilevante, per il futuro del paese, il fatto che nessuna alternativa credibile si profili all’orizzonte.

*Professore associato di Scienza politica nell’Università di Pavia

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