di Alessandro Campi

KissingerLe ricorrenze centenarie – quest’anno abbiamo avuto, per quel che riguarda l’Italia, quella importantissima della Grande Guerra – sono una manna per il mondo dell’informazione: stimolano la discussione e le rievocazioni, consentono di realizzare dossier e inchieste, con grande godimento dei lettori e degli appassionati di storia. Ma sono pericolose, dal punto di vista intellettuale, per le facili ed errate analogie che spesso suggeriscono. L’oggi è sempre diverso dallo ieri e le lezioni della storia, per quanto importanti, non si possono applicare in modo meccanico.

Prendete il Congresso di Vienna, il cui atto finale il 9 giugno 1815 – quindi esattamente duecento anni fa – segnò l’inizio di una fase della storia europea, basata sull’equilibrio politico-diplomatico tra le grandi potenze che avevano sconfitto la Francia napoleonica, destinata a mantenersi stabile per quasi un secolo. Cosa ha a che fare quell’evento col nostro mondo odierno? È un capitolo del passato o, con gli opportuni aggiustamenti, potrebbe rappresentare un modello per il futuro?

Dinnanzi al caos in cui versa la politica internazionale dai tempi della fine della Guerra fredda, per certi versi paragonabile agli sconquassi prodotti in giro per l’Europa dalle baionette della Grande Armée, sono in effetti molti quelli che pensano che ci vorrebbe – invece dei periodici e inconcludenti vertici tra Capi di Stato e di governo in cui non si decide mai nulla e ci si limita a delle passarelle ad uso dei media – qualcosa come un nuovo Congresso di Vienna: un grande appuntamento internazionale che chiami in causa la responsabilità delle grandi potenze, antiche ed emergenti, e che sia capace di disegnare un ordine nuovamente globale e duraturo, basato su regole e valori condivisi.

Detto fatto. Nelle sale splendenti del palazzo imperiale di Hofburg si è aperto lo scorso giovedì 22 ottobre (per poi trasferirsi nel Castello di Schönbrunn, l’antica sede del potere asburgico) un summit internazionale nel quale – duecento anni dopo gli incontri che ebbero per protagonisti principali Metternich, Castlereagh, Hardenberg e Talleyand – si discute dei fragili equilibri geopolitici che governano il pianeta, dei pericoli che, tra terrorismo, immigrazioni di massa, volatilità dei mercati finanziari, catastrofi naturali, povertà endemica e iniqua distribuzione delle risorse naturale e della ricchezza, incombono minacciosi sulla convivenza tra gli Stati e delle soluzioni per evitarli.

Alla riunione – rigorosamente a porte chiuse, giusto per alimentare la paranoia complottista oggi alla moda – non partecipano però ministri degli esteri in carica o missioni diplomatiche ufficiali (anche se diversi Paesi hanno scelto di mandare degli osservatori). Saranno presenti invece studiosi, analisti e rappresentanti dei principali centri di studio che nel mondo si occupano di relazioni internazionali, studi strategici e ricerche sulla pace.

L’architetto di questo grande evento – un convegno scientifico più che un congresso politico – non poteva essere che Henry Kissinger (intervento in videoconferenza per ragioni di salute e d’età). Protagonista della politica estera americana ai tempi della presidenza Nixon, Kissinger ha in realtà iniziato la sua carriera come storico accademico con un saggio dedicato proprio al Congresso di Vienna, Diplomazia della Restaurazione, che già conteneva l’essenziale del suo credo politico realista, riassumibile nel rifiuto dell’unilateralismo e nella visione di un ordine internazionale pluralistico basato sul bilanciamento, per definizione precario e dinamico, del potere degli Stati (da qui la sua grande fiducia nell’arte della diplomazia).

Studioso rigoroso, politico navigato e grande venditore di se stesso, come dimostra la redditizia attività di consulente che ha svolto dopo aver lasciato l’attività pubblica, Kissinger è il primo a sapere che le analogie tra il Congresso di Vienna originale e l’evento celebrativo da lui voluto due secoli dopo lasciano il tempo che trovano e sono più che altro un gioco intellettuale. Non solo perché non spetta certo a un pugno di studiosi definire un nuovo concerto delle nazioni legalmente vincolante (al massimo potranno dare qualche utile suggerimento ai governanti su quali meccanismi utilizzare per garantire un dialogo più costruttivo tra gli Stati). E nemmeno perché non si può prendere a modello un’intesa che all’epoca segnò la vittoria ideologica del legittimismo monarchico sul principio nascente della sovranità popolare. Ma per la banale ragione che il mondo globale odierno, nel quale le sovranità di sono moltiplicate a dismisura e nel quale sembrano scontrarsi sistemi valoriali e modelli di vita incompatibili (spesso ispirati ad un credo religioso), non ha nulla a che vedere con l’ordine eurocentrico dei primi dell’Ottocento basato, al di là dei contrasti politici e militari tra i diversi (e pochi) Stati che lo componevano, su credenze condivise e modelli sociali tutto sommato omogenei.

Proprio Kissinger ha spiegato bene, nel suo ultimo libro intitolato per l’appunto Ordine mondiale, come oggi non sia per niente facile, al di là degli auspici ricorrenti, trovare un criterio politico-valoriale unificante tra le diverse regioni o aree che compongono il mondo. Non solo, ma ha anche chiarito che una qualche forma di ordine e di pacifica convivenza all’interno dei diversi spazi regionali è la premessa necessaria perché si possa poi pensare ad un modello di ordine globale.

Il pensiero corre in particolare al mondo mediorientale e nord-africano, laddove l’offensiva militare e ideologica islamista e la mancanza in quell’area di una potenza egemone o guida (ruolo al quale aspirano senza riuscire nel loro obiettivo dall’Egitto all’Iran, dall’Arabia Saudita alla Turchia) stanno producendo una situazione di crescente caos e instabilità. In quella parte di mondo in senso lato definibile islamica, ci vorrebbe – prima di immaginare un Congresso di Vienna del XXI secolo che possa ricostruire su basi più pacifiche il sistema internazionale – una sorta di Pace di Vestfalia. Quest’ultima nel 1648 mise fine, in modo pragmatico e senza la pretesa di imporre ai diversi attori una visione morale unica, alle sanguinose contese che sul suolo europeo avevano diviso cattolici e protestanti. In che modo e quando si potrà mettere fine alla guerra civile religiosa che ancora oppone, all’interno del mondo musulmano, sciiti e sunniti? Forse anche questa è una cattiva analogia storica. Ma sarà interessante vedere se su questo tema cruciale avranno qualcosa da proporre i saggi riuniti a Vienna.

* Articolo apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 23 ottobre 2014.

 

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