di Manlio Lilli

La riforma del Lavoro è un tema spinoso. C’è chi dice che la riforma peggiorerà le cose, chi grida “al lupo” perché si toccano antichi tabù, chi fa battute sferzanti e perfino chi lancia attacchi personali al Ministro Fornero. Alla fine di febbraio dalle pagine del Corriere della Sera, Alesina e Giavazzi sostenevano che “essere prudenti è poco saggio”. Ora che il provvedimento è fatto si rimarca che non è perfetto. Che è possibile che alcune misure non abbiano i risultati previsti o peggio che introducano effetti perversi, come sostenuto da Alesina ed Ichino sul Corriere del 6 aprile scorso. Ma va riconosciuto che nessun governo aveva mai avuto il coraggio di muoversi su questo terreno negli ultimi quindici anni.

In tema di lavoro l’attualità fornisce un più che motivato pretesto per riandare al passato. Ad un Piano del lavoro mai realizzato. Quello avanzato, tra la fine del 1949 e l’inizio del 1950, dal segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio. Ipotesi prospettata e ben presto accantonata, analizzata da economisti e storici, imprenditori e sindacalisti nel volume Crisi, rinascita, ricostruzione (Donzelli, pagg. 125, Euro, 25,00), che raccoglie a cura di Silvia Berti gli atti di un convegno su Di Vittorio e il Piano del lavoro. Una proposta originale e politicamente accorta, ma destinata a rimanere irrealizzata. Proprio per la mancanza di un convinto e allargato sostegno non solo da parte del Governo ma della stessa dirigenza comunista, con Palmiro Togliatti in testa. Estraniandosi dal contesto temporale, come rileva nella prefazione al volume l’attuale Ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca, per la persistente difficoltà delle classi dirigenti italiane “ad amministrare con un metodo e una prospettiva di medio-lungo termine”.

Questo vulnus strutturale italiano, malato da sempre di un soffocante particolarismo che si tramuta facilmente in individualismo, ha spesso ostacolato articolate programmazioni dello sviluppo. Delegato a dinamiche spontanee, al proliferare di una realtà molecolare ma non per questo priva di elementi positivi. Nei momenti di maggiore difficoltà questa architettura, nella quale gli indirizzi non sono condivisi ma spontanei, mostra tutti i suoi limiti. Evidenzia l’esistenza di fondamenta fragili. Proprio questa consapevolezza spingeva Di Vittorio ad immaginare qualcosa di differente.

L’idea fondante era quella di mobilitare tutte le energie produttive disponibili, nell’intento di trasformare la necessaria ricostruzione postbellica nell’avvio di una nuova fase di sviluppo. Una fase che consentisse al Paese di diventare più moderno, più giusto, più ricco. Impegnandosi su tre grandi temi. Agricoltura, edilizia, energia elettrica. Temi che ancora, perlopiù solo accennati, continuano ad impedire al Paese di crescere. Infrastrutture mancanti, energia che conserva prezzi alti, sistema formativo quasi “incomunicante” con il mondo del lavoro, sono desolatamente ancora punti all’ordine del giorno. Anche per questo il Piano appariva ben strutturato. Sviluppandosi su un duplice binario. Da un lato, offriva una cornice di riferimento all’azione sindacale sviluppata allora dalla Cgil nelle fabbriche e nelle campagne, al Nord e al Sud. Dall’altro, indicava alcune delle direttrici di politica economica che furono poi avviate dai governi italiani negli anni Cinquanta e Sessanta. Emanuele Macaluso in diverse occasioni, non solo dalle colonne de Il Riformista, ha ricordato come nel Piano del Lavoro proposto nel congresso della Cgil svoltosi a Genova nell’ottobre del 1949, Di Vittorio affermò che “… noi pensiamo che l’unica spedizione militare che potrebbe riuscire ad eliminare il banditismo e la mafia e a liberare il generoso popolo siciliano da una situazione inumana, dovrebbe essere una spedizione di ingegneri, di tecnici, i quali alla testa dei lavoratori siciliani dovrebbero cercare ed ottenere tutti i mezzi, per fare rinascere la Sicilia e l’Italia”. E lo stesso Presidente Napolitano ha avuto modo di sottolineare l’operato del sindacalista pugliese.

Leggendo i suoi testi, in appendice al volume, è chiaro rilevare come la società alla quale si proponeva è ben altra rispetto a quella attuale. Per questo cercare di trovare un adattamento, nella situazione attuale, ai suoi propositi, sarebbe illogico. Di più, sbagliato. E’ mutato il contesto, e con esso gli attori che vi si muovono. Differente è verificare quanto continui ad essere rilevante il nucleo del discorso di Di Vittorio. Verificare l’opportunità di un intervento pubblico che abbia come fine la correzione degli squilibri socio-economici.

Il mercato del lavoro è come un campo di gioco. Servono buone regole, un arbitro capace, un servizio di assistenza per chi è costretto ad uscire. Ma l’esito della partita dipende dai giocatori. Nel campo da gioco “riformato”, imprese e sindacati devono ora rimboccarsi le maniche. Probabilmente, senza dimenticare Di Vittorio.

 

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