di Damiano Palano
Proprio all’inizio del Novecento, nelle pagine del suo celebre Tallone di ferro, Jack London dipingeva un claustrofobico scenario fantapolitico in cui le istituzioni democratiche americane apparivano quasi completamente disseccate dal potere di una «plutocrazia» onnipresente. Anche per questo, è davvero difficile sottrarsi alla tentazione di ravvisare, nel quadro allestito più di cento anni fa dall’autore di Zanna bianca, alcuni degli elementi che oggi, secondo gli osservatori più critici, caratterizzano le nostre democrazie. Uno degli aspetti più interessanti del romanzo era però l’immagine del partito rivoluzionario delineata da London. Quando pensava all’organizzazione chiamata a combattere la dittatura della «plutocrazia», il romanziere californiano descriveva infatti un partito non molto diverso da quello di cui Lenin – dall’altra parte del globo – aveva iniziato a fissare i caratteri essenziali solo pochi anni prima, nelle pagine di Che fare? Il partito che London poneva al centro del suo romanzo fantapolitico non era un’organizzazione che puntava a partecipare alle elezioni, se non altro perché i dibattiti al Congresso si erano ormai tramutati in rappresentazioni puramente farsesche, prima di degenerare ulteriormente. Il partito immaginato da London era piuttosto un’organizzazione che presentava tutti i tratti della compatta sagoma del partito rivoluzionario novecentesco, e cioè di quel modello che, negli anni a venire, sarebbe diventato per molti versi egemone all’interno del movimento socialista. Nelle pagine di London, l’assetto dell’«oligarchia» americana, la sua piena coesione interna e il suo implacabile sistema di sfruttamento – il «Tallone di ferro» – implicavano infatti la necessità di un’organizzazione rivoluzionaria altrettanto coesa e risoluta: un’organizzazione che soltanto una rigorosa gerarchia e una precisa divisione dei compiti potevano garantire. Inoltre, se all’organizzazione rivoluzionaria spettava il compito cruciale di definire il piano segreto dell’insurrezione e del logoramento del «sistema nervoso» dell’oligarchia, alla «massa del popolo disperato» restava soltanto un ruolo secondario. Per quanto disposto a tutto, il «popolo dell’abisso» era infatti totalmente inadatto ai compiti dell’organizzazione: capace di destarsi improvvisamente dall’abituale apatia – levandosi «in vere ondate di rabbia, ruggendo e brontolando, carnivoro, ebbro del whiskey dei depositi assaliti, ebbro d’odio e della sete di sangue» (Il tallone di ferro, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 238) – poteva giocare un ruolo solo all’interno dei piani insurrezionali definiti dal partito.
Nella distopia fantapolitica di London si ritrovano così, seppur estremamente stilizzati, tutti gli elementi al cuore del modello di organizzazione rivoluzionaria destinato a imprimersi nell’immaginario novecentesco. Un modello i cui elementi cruciali sono costituiti dalla ferrea disciplina interna, dalla centralità dell’ideologia, dal ruolo di un militante disposto a sacrificare tutto se stesso alla causa della rivoluzione e a sottomettere la propria volontà alle decisioni del partito. Ma, in una certa misura, quel modello di partito si basa sulla medesima convinzione che alimenta tutti i grandi partiti di massa novecenteschi. Una convinzione secondo cui esiste un sostanziale ‘isomorfismo’ fra la struttura del potere economico e la struttura di cui il partito deve dotarsi per tentare di avviare un processo rivoluzionario, o anche solo per impossessarsi delle leve del potere. E che spinge dunque partiti con principi ideologici molto lontani fra loro, e con obiettivi spesso notevolmente diversi, ad adottare lo stesso tipo di organizzazione.
Alla base di Finale di partito (Einaudi, Torino, pp. 137, euro 10.00), il più recente fra i libri di Marco Revelli, sta per molti versi proprio la critica al fatale isomorfismo che nel corso del Novecento si stabilisce fra organizzazione politica e organizzazione economica. Il titolo del pamphlet – che come tutti gli scritti di Revelli si legge come un romanzo – lascia naturalmente poche speranze al partito di massa che abbiamo conosciuto nel corso del XX secolo, e di cui gli ultimi trent’anni sembrano d’altronde aver lasciato in piedi ben poco. In effetti, nelle pagine iniziali del volume ricostruisce i contorni di quella «diaspora» che ha condotto buona parte degli elettori italiani a fuoriuscire dagli steccati identitari che a lungo li avevano ospitati. Una «diaspora» le cui dimensioni, dopo le elezioni del febbraio 2013, sono evidentemente cresciute, a ulteriore dimostrazione che il processo segnalato da Revelli non è certo un abbaglio congiunturale. Naturalmente, questo processo è un esito della crisi economica, delle politiche di austerità e del ‘governo tecnico’, ma è anche il segnale della dissoluzione del bipolarismo sui generis della Seconda Repubblica. Per Revelli, si tratta di qualcosa di ancora più radicale, e cioè di una crisi che mette in discussione la stessa funzione dei partiti politici. La caduta verticale della fiducia riposta nei partiti non è infatti un fenomeno solo italiano, ma la conseguenza della sensazione, sempre più diffusa in tutte le democrazie occidentali, che la classe politica costituisca in realtà una sorta di «oligarchia».
Ovviamente la denuncia della deriva oligarchica nascosta nei meccanismi democratici non è una novità, perché un secolo fa Robert Michels ne fece la più impietosa – e ancora oggi affascinane – analisi. Per molti versi, oggi non facciamo dunque che riscoprire ancora una volta gli effetti della vecchia «legge ferrea dell’oligarchia», quando riconosciamo – dentro ogni partito – la tendenza dei gruppi dirigenti a trasformarsi in una casta intoccabile e inamovibile, che invariabilmente tende a far coincidere il bene del partito (e il bene del paese) con la propria conservazione. Gli effetti sono però oggi molto diversi da quelli del passato. Il partito cui Michels guardava si fondava infatti sull’esistenza di una profonda divaricazione sociale e culturale fra leader e masse: in altre parole, le masse di lavoratori salariati, in larga parte privi di istruzione e con bisogni prevalentemente «materiali», non solo delegavano la funzione di direzione a una minoranza di intellettuali, ma – come sottolineava con forza lo studioso tedesco – finivano anche col nutrire un’incondizionata fiducia nei propri capi. Ed è invece questa fiducia a dissolversi progressivamente nell’ultimo secolo, fino quasi ad annullarsi. Ma il motivo di questo cambiamento non è soltanto la nascita di nuove generazioni di «post-materialisti», dotati di maggiori risorse cognitive rispetto al passato, dell’individualizzazione, o del mutamento tecnologico. Secondo Revelli, la spiegazione più radicale va ritrovata invece proprio nell’isomorfismo tra forma-partito e forma dell’impresa.
Revelli non si limita infatti a segnalare come i vecchi partiti di massa siano stati sostituiti da quelli che è diventato abituale definire ‘partiti di cartello’, oppure da partiti professionali-elettorali, con un radicamento territoriale sempre più esile. Il suo discorso va più in là, e sviluppa l’idea che, in qualche modo, la crisi del partito novecentesco non sia altro che l’ultimo episodio di quella transizione al ‘post-fordismo’ che ha segnato gli ultimi trent’anni. «Le macchine organizzative novecentesche», scrive infatti Revelli, «hanno tutte le stesse caratteristiche (siano esse Fabbriche o Eserciti, Partiti o Chiese…): una tendenza intrinseca al gigantismo (a incorporare masse ampie di uomini in modo stabile, sistemandoli in strutture solide e permanenti» (p. 75). Che siano fabbriche o partiti, tutte le «macchine» del Novecento sono accomunate da «una vocazione onnivora e centripeta, tesa ad attirare entro il proprio campo organizzativo quante più funzioni possibile, per sottometterle alla ‘mano visibile’ dei propri livelli gerarchici e garantirsene l’assoluta prevedibilità di comportamento» (p. 76). Ma quel modello, fondato sul pilastro del ‘gigantismo’, sull’ambizione di un’integrazione ‘verticale’, sulla formalizzazione di tutti i ruoli, sul primato della burocrazia, entra in crisi a partire dalla fine degli anni Settanta, con i primi segnali del passaggio dal ‘fordismo’ al ‘postfordismo’: un passaggio che comporta la ricerca di flessibilità organizzativa, la destrutturazione dei grandi complessi industriali, l’affermazione del just-in-time toyotista, ma anche una progressiva deregulation e l’abbandono dei principi weberiani di una burocrazia orientata al fedele rispetto delle procedure. Se il mutamento investe prima di tutto l’ambito imprenditoriale, non mancano anche le ricadute sul terreno politico, che finiscono col coinvolgere i partiti-fabbrica del Novecento. Quei partiti erano infatti «un tipo di organizzazione per definizione ‘pesante’, concepita e costruita non solo per gestire i processi istituzionali della rappresentanza (per concorrere alle elezioni), ma anche – e spesso soprattutto – per incorporare nelle proprie strutture (per ‘integrare’, appunto) interi pezzi di società, aree ampie del proprio elettorato, per orientarne e formarne valori e cultura, strutturarne aspetti significativi della vita (il tempo libero, le letture, i gusti…), assicurandosene nel contempo la prevedibilità dei comportamenti politici ed elettorali» (p. 80). Inoltre, nel corso dei decenni, quegli stessi partiti – pur differenti per origini e ideologia – presero a dilatare i loro apparati, seguendo una logica in fondo molto simile a quella dell’«integrazione verticale» dell’impresa fordista: «Non più solo circoli e sezioni per la discussione e l’elaborazione politica, ma anche tutta la strumentazione tecnica (l’‘indotto’ potremmo dire) per far fronte ai compiti di una moderna macchina socio-produttiva», e tutto «con la logica manageriale del make, che offriva l’enorme vantaggio del controllo diretto – attraverso la ‘mano visibile’ dell’organizzazione – sull’intero ventaglio delle azioni politicamente utili e sul proprio stesso ‘capitale politico’ ed elettorale» (p. 81).
Proprio perché tanto ‘pesanti’, i partiti ‘fordisti’ non sono in grado di rispondere al mutamento di paradigma. Un mutamento che – in modo analogo a quanto si produce sul mercato dei beni – avviene principalmente nel ‘mercato elettorale’, perché anche gli elettori diventano sempre più fluttuanti nello spazio politico e perché non sono più vincolati nelle loro scelte da stabili appartenenze ideologiche. Alcuni dei vecchi partiti riescono ad adeguarsi alle nuove esigenze del ‘mercato’, mentre altri non sono in grado di farlo, e si dissolvono nell’arco di qualche anno. Ma, in generale, tutti i partiti devono rapidamente rimodulare la loro organizzazione in vista della modificazione che si realizza nel rapporto con gli elettori, testimoniata dal calo degli iscritti e del flusso di finanziamenti provenienti da seguaci e militanti. È proprio per rispondere a questa sfida che la gran parte dei partiti si indirizza verso nuove fonti di finanziamento, principalmente pubbliche e in parte provenienti da gruppi privati. Anche perché, nel frattempo, la competizione politica si sposta rapidamente sul terreno della comunicazione televisiva (un terreno in cui il militante serve a poco, mentre occorrono ingenti risorse, professionalità piuttosto costose, costanti monitoraggi del clima di opinione). In termini economici, l’effetto della ‘mediatizzazione’ è soprattutto una dilatazione dei costi delle campagne, e da questo punto di vista è sufficiente ricordare – come fa opportunamente Revelli – che Barack Obama e Mitt Romney hanno investito per la loro campagna più o meno due miliardi di dollari, circa il doppio della cifra di quattro anni prima, e venti volte più di quanto spesero i contendenti delle elezioni del 1980. La spiegazione della lievitazione dei ‘costi della politica’ va ricercata perciò nel mutamento del contesto in cui operano i partiti e nel cambiamento del terreno su cui si svolge il confronto. Ma il punto è che tale dilatazione – tanto più in contesti in cui il finanziamento è soprattutto pubblico – risulta sempre più in contrasto con la realtà di partiti il cui legame con la società diventa labile. «Un po’ com’era accaduto negli anni Settanta del Settecento, quando i costi congiunti della tradizionale noblesse d’épée, degli squattrinati eredi dell’antica aristocrazia guerriera, e della più recente noblesse de robe, dei famelici servitori di corte più vicini al re, erano apparsi sempre più ingiustificabili e intollerabili man mano che la carestia erodeva le risorse di una società in trasformazione fino a lacerare l’involucro dell’Ancien régime». In effetti, anche la ‘nobiltà’ dei partiti sembra «incapace di mediare tra passato e presente compensando gli esplosivi costi di transazione imposti dalle nuove condizioni del mercato politico con una proporzionale riduzione dei suoi consolidati costi organizzativi», e pare piuttosto «impegnata a moltiplicare gli investimenti fissi per tentare di difendere una residua e sempre più incerta capacità di controllo su una società sempre più liquida e imprevedibile» (p. 94).
Il ragionamento di Revelli non si limita però a denunciare l’estensione dei costi della politica, o a segnalare la metamorfosi che ha investito i partiti. L’interrogativo principale di Finale di partito è posto infatti sulle conseguenze che la metamorfosi può avere sulle stesse democrazie rappresentative. In questo senso, l’immagine della «democrazia del pubblico», proposta da Bernard Manin, coglie alcuni aspetti di quel processo per cui i cittadini – sempre meno identificati con i vecchi di partiti – finiscono col tramutarsi nel pubblico di uno spettacolo, e cioè in un soggetto sostanzialmente estraneo al gioco politico, e al quale è assegnato solo il ruolo di applaudire o censurare quanto fanno gli attori sul palcoscenico. Alcune dinamiche sono messe in luce anche dall’idea di Pierre Rosanvallon di un’estensione progressiva di quella «contro-democrazia» che, negli ultimi due secoli, aveva avuto un ruolo solo di ‘controllo’, nei confronti della classe politica presente nelle assemblee rappresentative, ma che, pur senza mirare alla ‘presa del potere’, tende oggi a ridurre i margini di fiducia e legittimazione di cui gode la classe politica. E forse persino lo scenario catastrofico della «democrazia immediata», sostenuto dagli entusiasti seguaci della Rete, è in grado di cogliere qualcosa di quello smottamento che colpisce le fondamenta dei partiti.
Come debba concludersi il finale cui allude il titolo del libro di Revelli non è ancora chiaro. Senza dubbio, secondo Revelli il partito novecentesco sembra avere ormai del tutto concluso la sua parabola storica. In altre parole, l’isomorfismo tra organizzazione dell’impresa e organizzazione politica condanna la tradizionale forma-partito e spinge verso la ricerca di nuovi assetti, che siano più orizzontali, più flessibili e che, soprattutto, superino una rigida divisione dei ruoli. «Il controllo monopolistico dello spazio pubblico da parte del partito novecentesco», scrive infatti proprio al termine del libro, «è finito». E la sovranità del partito appare ormai del tutto limitata, perché dipende «dai vertici di un triangolo a geometria variabile». Un triangolo i cui vertici sono il potere mediatico – definito come «la vera variabile determinante capace di dimensionare, di volta in volta, il perimetro della rappresentanza (riconvertita ormai quasi completamente in rappresentazione) e di assegnare secondo la propria narrativa prerogative e spazi decisionali» – la coppia di potere economico e potere finanziario, e i «movimenti», ossia «quel ‘nuovo popolo’ informato, competente ed esigente, che rivendica a sé spazi crescenti di autodeterminazione e seleziona attentamente i livelli della delega», e che Revelli identifica – adottando un’espressione di Urlich Beck – come «sub-politica». «Dalla risoluzione di quell’equazione a molte incognite dipenderà, in buona misura, il futuro delle nostre democrazie fragili. O, se si preferisce, dal grado in cui la forza di gravità di ognuno di quei vertici del triangolo opererà sulla massa liquida – e talvolta addirittura gassosa – di ciò che resta dei partiti politici dopo la loro metamorfosi radicale» (p. 136).
Naturalmente si potrebbe discutere a lungo sulla previsione che i partiti siano ormai vicini al loro definitivo tramonto (una previsione che, a ben vedere, Revelli non sposa almeno pienamente), e si potrebbe anche dissentire sulle tinte piuttosto fosche del ritratto del partito novecentesco che emerge dal pamphlet dell’intellettuale torinese. Anche perché Revelli sembra davvero far propri alcuni dei vecchi cavalli di battaglia della critica anti-partitica: una critica che, senz’altro nel corso dell’ultimo mezzo secolo ha trovato degli alfieri anche tra le fila dell’intelligenzia radicale, impegnata a difendere la causa dei ‘movimenti’ contro partiti sempre più sclerotizzati, ma che, tradizionalmente, ha avuto i più convinti sostenitori tra quei pensatori che, con qualche nostalgia per la vecchia rappresentanza individuale, vedevano nei partiti soltanto macchine dispotiche avide di denaro pubblico e del tutto indifferenti all’interesse collettivo. Ma, a dispetto di questi elementi, è davvero difficile non concordare con la diagnosi formulata da Revelli sulla metamorfosi dei partiti. Perché i punti che segnala si ritrovano davvero nella realtà delle nostre democrazie. E, soprattutto, perché l’insieme delle trasformazioni che abbiamo vissuto negli ultimi anni – e che sono diventati dirompenti negli ultimi ventiquattro mesi – sembrano davvero suonare come un requiem per la democrazia dei partiti.
Ciò nondimeno, c’è un aspetto su cui l’analisi di Revelli sembra in parte sorvolare, un aspetto che peraltro non coincide soltanto con un dettaglio del quadro, ma che risiede nel contesto sistemico in cui la metamorfosi dei partiti prende forma nel corso degli ultimi quattro decenni. In effetti, per dar conto della trasformazione del partito novecentesco, Revelli prende le mosse dall’analogia fra quanto avviene nella sfera dell’impresa e quanto si produce in ambito politico. In questo senso, si tratta per molti versi del medesimo impianto interpretativo già sviluppato da Revelli nel suo dibattuto Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro (Torino, Einaudi, 2001). Ma è soprattutto significativo che, in entrambi i casi, la causa del mutamento, l’elemento che innesca la trasformazione, sia rinvenuta nel mercato, ossia nel cambiamento delle attese, dei bisogni, delle richieste dei consumatori. In altre parole, la svolta al ‘postfordismo’ viene interpretata soprattutto come una risposta alla saturazione del mercato dei beni standardizzati di massa e all’esigenza delle imprese di differenziare il prodotto in base alle richieste del consumatore, ‘pensando al contrario’ rispetto alla logica fordista. Allo stesso modo, il passaggio al ‘partito leggero’ è interpretata soprattutto come un modo per venire incontro alle mutate sensibilità di elettori non più legati affettivamente ai partiti e disposti a ‘fluttuare’ nel mercato politico, alla ricerca dell’alternativa più convincente, o del leader più seducente. Per quanto questi processi siano in entrambi i casi innegabili, considerarli come la ‘causa’ del mutamento, o comunque come il tassello decisivo per decifrare il puzzle della trasformazione democratica, rischia di diventare fuorviante. Ci si può chiedere se l’idea della saturazione del mercato rappresenti la chiave di lettura più adeguata per comprendere la transizione al postfordismo, ma ci si può chiedere soprattutto se – puntando lo sguardo su ciò che avviene nei partiti (e sul rapporto fra partiti e società) – si riesca davvero a comprendere la trasformazione delle nostre democrazie.
In realtà, dovremmo forse allargare la nostra prospettiva, non tanto per negare il mutamento dei partiti (o per considerarlo come irrilevante), quanto piuttosto per collocarlo all’interno di un quadro articolato. E cioè per riconoscere come il «finale di partito» sia probabilmente uno dei tasselli di una grande trasformazione sistemica, un riflesso della transizione a una nuova «era post-americana» e del mutamento geo-politico in atto, oltre che un portato della ‘crisi fiscale’ delle democrazie occidentali. Questi processi di lungo periodo non sono naturalmente da considerare come ‘cause economiche’ che ‘determinano’ conseguenze politiche, ma piuttosto come il contesto entro cui vanno a innestarsi e a interagire le modificazioni nelle identità politiche, le modalità di espressione dei conflitti, le dimensioni organizzative della società e della politica. D’altra parte, osservando il Novecento dalla prospettiva che ci consente il nuovo secolo, dobbiamo riconoscere che la liberaldemocrazia occidentale era anche il risultato della ‘guerra civile mondiale’, ossia il riflesso di un conflitto internazionale che investiva e penetrava la politica interna di ogni Stato. E che dunque i partiti di massa erano organizzazioni disciplinate, gerarchiche, quasi militari nella loro fisionomia, proprio perché il loro compito era di presidiare le casematte di una società sempre sul punto precipitare in una guerra al tempo stesso civile e mondiale. Ora naturalmente quel mondo non esiste più. Non solo perché i cittadini sono fuggiti da quelle trincee, o perché hanno trovato le casematte in cui erano rimasti imprigionati per mezzo secolo sempre più soffocanti e claustrofobiche. Ma anche perché la guerra (quella guerra) è finita. Perché – per un intreccio di vicende che, come sempre avviene per i grandi mutamenti storici, è in fondo inestricabile – le vecchie trincee e le casematte non servono più a nulla. E proprio per questo la domanda non deve essere forse – soltanto – se sia possibile una democrazia «oltre» i partiti, o se insieme alla fine del partito novecentesco si debba celebrare l’estinzione di ogni tipo di partito, o se una nuova forma di partito – più flessibile, più orizzontale, meno gerarchica – possa davvero riuscire a prendere corpo. La vera domanda che forse ci dovremmo porre è, invece, se la democrazia che abbiamo conosciuto – la democrazia basata sui partiti, ma anche sullo Stato sociale e su un certo tipo di regolazione del conflitto – possa sopravvivere al mutamento sistemico che diventa di giorno più evidente. O se, fra qualche decennio, non dovremo considerarla soltanto come il pezzo di un «mondo di ieri» da rimpiangere nostalgicamente. E come un assetto sempre meno capace di resistere all’abbraccio fatale di un nuovo inafferrabile ‘tallone di ferro’.
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