di Sofia Ventura*
L’intervento dell’on. del Pd Mario Barbi, pubblicato lo scorso 25 aprile sulle pagine dell’Opinione, offre una lettura della crisi attuale e delle difficoltà che la nostra democrazia ha incontrato negli ultimi venti anni di grande importanza poiché si contrappone a una narrazione, oggi molto in voga, che vede nel cosiddetto “bipolarismo muscolare” o “forzato” la ragione dell’incapacità dei nostri governi di agire con forza ed efficacia e della politica di farsi strumento al servizio del buon governo.
Seguendo Barbi, è cruciale invece contrapporsi a quella narrazione, rammentando come il bipolarismo e l’alternanza abbiano costituito una acquisizione di grande importanza per il sistema politico italiano in quanto hanno finalmente introdotto al suo interno principi fondamentali per il buon funzionamento di una democrazia, come l’attribuzione, da un lato, di un potere di scelta e di sanzione ai cittadini, sino agli inizi degli anni Novanti privati della facoltà di decidere del proprio governo, dall’altro di una più chiara responsabilità ai governanti. E se molto non ha funzionato non è certo in ragione di queste innovazioni. Piuttosto, è da sottolineare come il processo sia rimasto incompiuto a causa di una carenza delle regole, elettorali e istituzionali.
Sia il sistema elettorale quasi maggioritario del ’93, sia – in ancora maggior misura – quello introdotto nel 2005 hanno consentito il permanere di una elevata frammentazione partitica e non hanno fornito seri incentivi all’aggregazione delle forze politiche (che quando è avvenuta è stata soprattutto il risultato della strategia di alcuni leader) in contenitori più ampi. Al tempo stesso, il nostro disegno istituzionale, per quanto concerne la forma di governo, è rimasto pressoché immutato rispetto alla Costituzione del ’48, una costituzione espressione dell’allora nascente regime dei partiti e che ha fortemente penalizzato il ruolo dell’esecutivo a favore della centralità del Parlamento (ovvero dei partiti politici).
Oggi ci troviamo di fronte ad un bivio: o abbandoniamo il modello dell’alternanza – che contraddistingue tutte le grandi democrazie occidentali – o portiamo a compimento la nostra infinita transizione introducendo quelle riforme che possano rendere finalmente compiuto il passaggio a un tipo maggioritario di democrazia, che a differenza di quello consensuale (o proporzionale che dir si voglia), privilegia – attraverso una pluralità di meccanismi – la funzione del “governare”.
Le scelte che si possono compiere se si vuole realizzare questo secondo obiettivo sono molteplici. Quel che è certo è che è necessario introdurre nuove regole di competizione (cioè una nuova legge elettorale) che non solo mantengano un assetto bipolare, ma che favoriscano i grandi partiti ed emarginino le forze estreme, inducendo gli elettorati di queste ultime a un voto più strategico e incentivando i partiti maggiori a rivolgersi anche a quell’elettorato per integrarlo. L’esperienza del sistema elettorale maggioritario a due turni, basato su collegi uninominali, è, a questo proposito, molto interessante. Ciò è fondamentale perché il sistema dei partiti e le sue dinamiche costituiscono un pezzo fondamentale della “storia” di un sistema politico e solo la formazione di maggioranze omogenee può rendere possibile l’esercizio di un forte potere di governo.
Ma l’altro pezzo della “storia” lo raccontano le istituzioni, le quali producono a loro volta anche effetti sul funzionamento del sistema dei partiti, in un circuito che può essere virtuoso o vizioso. Il rafforzamento del nostro sistema di governo con uno spostamento dell’equilibrio a favore dell’esecutivo (il che non significa un Parlamento depotenziato, ma un Parlamento che esercita compiutamente le proprie funzioni – da quella di controllo a quella di perfezionamento della produzione legislativa – tra le quali, però, non rientra quella di direzione politica, che deve essere del governo) può avvenire sia rimanendo all’interno del contesto parlamentare, sia innovando rispetto ad esso. Mario Barbi ritiene che sia un’innovazione in senso presidenziale la strada da percorrere per portare a compimento la trasformazione del nostro sistema politico in senso maggioritario. Concordo con questa tesi.
Concordo perché le controspinte proporzionalistiche che rimangono forti nel nostro paese possono essere arginate solo con istituzioni forti, ovvero istituzioni che pongano vincoli ed incentivi piuttosto costrittivi agli attori politici. Dico subito che il modello al quale penso è quello francese, non quello americano. Quest’ultimo, infatti, prevede tali vincoli al potere presidenziale – a partire dalla separazione tra il Presidente e il Congresso – che, nonostante i problemi che pure pone al sistema politico americano, nella particolare situazione statunitense riesce comunque a funzionare grazie alla presenza di partiti molto fluidi, una scarsa disciplina di partito e un assetto federale che decentra con modalità per noi impensabili molte funzioni pubbliche. Il sistema francese, invece, instaura una forte relazione tra voto dei cittadini, maggioranza parlamentare e governo e poiché il Presidente deve la propria forza oltre che alle disposizioni costituzionali e all’affermazione di una pratica “presidenziale”, anche al fatto che è l’effettivo leader della maggioranza (ciò quando le due maggioranze coincidono, il che è quasi inevitabile oggi in Francia e le disposizioni che portano a questo andrebbero imitate), si trova a detenere un potere di governo molto significativo, facendo del primo ministro di fatto il primo dei suoi collaboratori. Anche se costituzionalmente il Presidente è irresponsabile, di fatto assume in questo modo la responsabilità politica del proprio operato: del potere ha cioè oneri e onori.
L’adozione di un tale sistema in Italia avrebbe dunque il vantaggio di offrire finalmente una traduzione istituzionale al problema di esecutivi deboli e, individuando anche la figura di un Presidente eletto dal popolo con il potere di direzione politica, offrirebbe all’esecutivo una doppia legittimazione che lo rafforzerebbe di fronte ai tanti poteri di veto – politici, economici, sociali – esistenti nel nostro paese. Ma una scelta del genere avrebbe ricadute anche sul sistema dei partiti. Se, infatti, si scegliesse il metodo di elezione adottato oltralpe – sistema a due turni con ballottaggio – si produrrebbero inevitabilmente una spinta bipolarizzante e al tempo stesso nuove dinamiche nel sistema partitico e nei partiti costretti ad adattarsi alle nuove e impegnative regole.
In conclusione, la scelta presidenziale – alla francese – potrebbe offrire al nostro paese quell’innovazione sufficientemente radicale da spezzare le incrostazioni politico-istituzionali che lo stanno trasformando in una palude. In alternativa, come si diceva all’inizio, possiamo privilegiare un modello proporzionalistico, fare piccole riformette e assistere, così, all’inevitabile declino dell’Italia.
* Professore associato di Scienza politica nell’Università di Bologna e direttore del Dipartimento Sistemi di governo e Politiche pubbliche dell’Istituto di Politica
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